mercoledì 15 giugno 2016

Ciò che inferno non è: il mio paradiso

Ciò che inferno non è: il mio paradiso






Non trovando le parole giuste per descrivere quel che mi ha lasciato questo libro, ho dovuto ricorrere ad una frase di Stephen King. Ma del resto, ad una scrittrice esordiente può essere concessa qualche piccola copiatura. Il libro in questione è il terzo di  Alessandro D’Avenia, un autore che ho a poco a poco imparato ad apprezzare. Il primo che ha scritto, "Bianca  come il latte rossa come il sangue", era una bella storia, adatta ai teenager alle prese con le prime sfide della vita. Scorrevole, piacevole da leggere ma non mi ha lasciato granché. Il secondo, invece, "cose che nessuno sa", è entrato nell’elenco dei miei libri preferiti. Con lui è stato amore a prima vista, prima e dopo averlo letto, perché avevo l’impressione che quel libro parlasse di …. Me.  Ma ora veniamo al dunque.  Il libro che ora mi accingo a commentare è ambientato a Palermo, nell’estate del 1993 e, pur essendo un racconto di fantasia ,ha tra i protagonisti una persona realmente esistita, Don Pino Puglisi, il prete ucciso da Cosa Nostra, perché sapeva tenere la testa alta in un  mondo che tiene gli occhi a terra. L’altro protagonista è Federico,ragazzo intelligente  e sensibile che si offre di dare una mano a Don Pino al centro Padrenostro a Brancaccio, e così facendo scopre l’esistenza di un mondo nascosto, fatto di violenza, sottomissione ed omertà, che lui, figlio dei quartieri alti, neanche immaginava. L’esperienza a Brancaccio lo porta a guardarsi dentro, a fare i conti con  i propri limiti ma, soprattutto, gli fa capire quanto poco conosca la città in cui vive. Discorso, questo , che può essere esteso all’Italia in generale, di cui la Sicilia è la più eloquente rappresentazione.  In Federico ho trovato una specie di specchio, un alter ego. Stessa passione per i libri, in particolare per Dostoevskij, stesse inquietudini, stessi dubbi, stessa voglia di lottare e di cambiare il mondo, stessa sensazione di inadeguatezza.  Inutile dire che ho amato da subito questo personaggio. Ma di questo romanzo ciò che più colpisce è la capacità di descrivere, quasi come una foto, Palermo e il suo cuore di tenebra : la mafia.  Entrambe vengono descritte con una crudezza e un realismo impressionanti, ma senza   ricadere nel tecnicismo che  spesso caratterizza i resoconti sull’argomento.  E’ come se il libro dicesse “attento lettore, la mafia è ovunque, anche vicino a te”. E in effetti è vero. Si chiama mafia l’insaziabile sete di denaro, la giustizia che premia gli empi e punisce gli onesti, le colate di cemento, frutto di appalti truccati, che deturpano e sfigurano quanto c’è di più bello in Italia.  In una parola si chiama mafia quanto c’è di peggio nel nostro paese.  L’autore, nel corso del romanzo, non smette mai di ribadire che ,oltre a questo cuore marcio, ce n’è un altro, di carne  che , anche se pieno  di graffi e nonostante l’abbiano pugnalato tante volte, continua a battere. Piano ma batte. Come nella mia città, L’Aquila, che sembra morta, con i palazzi crollati e le impalcature che ancora la sfigurano, ma è vivissima e piena di voglia di tornare a volare. Mentre lo leggevo, due sono state le sensazioni più profonde che ho provato. La prima, quella di andare là giù, a vedere la perla del mediterraneo, conoscerla, toccare con mano il suo bello e il suo brutto. La seconda è una specie di richiamo. Io studio legge, ma non so ancora se fare la criminologa  o la p.m. Dal 93 ad oggi ne è passata di acqua sotto i ponti, e qualcosa è cambiato, ma c’è ancora molto da fare. Ebbene, ho avuto come l’impressione che la storia mi dicesse “sbrigati! Che qui c’è bisogno di te”. Forse pecco di superbia eppure … il tempo dirà se la mia impressione è giusta. Per concludere, dirò soltanto questo. Quando vi dicono “andate via che il paese è condannato e nessuno può farci niente”, non ci credete, perché finché ci saranno persone che credono nel futuro, che non smettono mai di sognare e non si sottomettono al male, il paese non è affatto condannato e chiunque può fare qualcosa perché questo germe venga definitivamente estirpato.



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