giovedì 14 luglio 2016

DELITTO E CASTIGO: il romanzo multicolore.

DELITTO E CASTIGO: il romanzo multicolore.





DELITTO E CASTIGO di Fedor Dostoevskij è il primo classico che ho letto di mia spontanea volontà, nonché il romanzo che mi ha iniziata al mondo dostoevskiano e ai classici in generale. La definizione che di solito ne dà la critica è quella di “poliziesco”, “romanzo criminale”. A mio parere una tale definizione è oltremodo riduttiva. In esso, nella sua trama, si intrecciano molteplici tematiche come la libertà, il sentimento del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, i modi umani di reagire al dolore, alla sofferenza, l’espiazione delle proprie colpe e tantissimi altri. In questo romanzo, ogni personaggio ha una sua autonomia, una sua personalità e dignità. Sono indipendenti gli uni dagli altri. Ma il protagonista è uno solo: Raskolnikov, un giovane studente. Il suo nome, si badi, non è casuale. Viene dal termine raskolnik che significa “scisma”, “rottura”. Raskolnikov, venuto a Pietroburgo dalla campagna per frequentare l’università, a causa di gravi ristrettezze economiche è costretto ad abbandonare gli studi e un bel giorno, per dimostrare a tutti, soprattutto a se stesso, di essere un super-uomo, uccide una vecchia usuraia. Raskolnikov, nel compiere il delitto, in un primo momento pensa anche di fare un favore all’umanità, liberandola da un essere abietto come l’usuraia, ma col passare del tempo la consapevolezza di aver commesso un grave crimine e il rimorso di coscienza, alla fine, lo portano a costituirsi. Delitto, colpa ed espiazione. Questi i tre cardini su cui si basa l’apparentemente semplice trama. Dico apparentemente perché in essa si celano significati molto più profondi che fanno capire come mai non solo è riduttivo, ma anche sbagliato, chiamarlo “poliziesco”. Qui siamo di fronte ad una vero e proprio romanzo psicologico. La vicenda del protagonista ci mostra che la libertà, se non frenata dai dovuti limiti, si autonega. Raskolnikov è spesso considerato un anti-eroe. Ciò è vero se lo confrontiamo con i protagonisti del resto della letteratura europea, ma non se lo si analizza nella sua essenza. Io lo definirei l’eroe per eccellenza, perché anche lui combatte contro i suoi nemici, che non sono tangibili ma interiori (la sua colpa e la paura della punizione) e li sconfigge proprio confessando il suo delitto e accettando il meritato castigo. Prima di giungere a questo, però, Raskolnikov ci pone un importante interrogativo: “i più grandi uomini  della storia hanno fatto stragi su stragi per arrivare dove sono arrivati, e i posteri li ricordano e li celebrano quasi come dei. Perché io, che ho ucciso un pidocchio, devo andare ai lavori forzati?” Una persona superficiale risponderebbe che quelle stragi erano necessarie per il bene dell’umanità, ma noi semplici mortali siamo sicuri di saper distinguere il bene dal male? Non vale forse per tutti il comandamento “non uccidere”? Ciò vuol dire che l’umanità venera degli assassini ai quali, a differenza di Raskolnikov, non viene imposto di pagare per le loro colpe e in cui il potere ha messo a tacere la coscienza. È un quesito pesante come un macigno, questo, che ci costringe a rivedere tutte le nostre convinzioni più radicate, ma in questa sede sarebbe troppo lungo discuterne. Come ho detto prima, accanto a Raskolnikov, ci sono altri personaggi che insieme a lui vivono e agiscono. Tre i più importanti: i suoi opposti Marmeladov, Svidrjgajlov e la protagonista femminile del romanzo: Sonja. Marmeladov è un povero disgraziato con moglie e figli da sfamare, il cui impiego non gli permette di condurre un’esistenza dignitosa, ma lui invece di reagire, passa la giornate ad ubriacarsi; ma nonostante le botte della moglie e la consapevolezza della propria situazione continua a vivere così. Lui rappresenta l’umanità sofferente incapace di rimettersi in piedi, che passa il tempo a piangersi addosso e il cui unico desiderio è essere compatita. Svidrjgajlov è un Raskolnikov al negativo. Lui nella vita ha commesso una bassezza dietro l’altra e in ognuna di esse trova un malsano piacere, il piacere di sprofondare sempre di più nell’abisso dell’infamia. Egli rappresenta il masochismo, l’attrazione fatale esercitata dal male sulla psiche umana. Il suo suicidio è l’altro risultato dell’eccesiva libertà. Veniamo infine a Sonja, figlia di Marmeladov, la quale per mantenere sé stessa e la famiglia è costretta a prostituirsi.  Lei è esteriormente timida e insignificante, ma dentro nasconde una grande forza d’animo. Nel corso della storia non la vediamo mai lamentarsi della sua deplorevole situazione. Anzi sopporta la sua croce con pazienza e dignità, confidando sempre in Cristo, tant’è che quando incontra Raskolnikov e apprende da lui ciò che ha fatto, non solo non lo giudica, ma lo ama. Lo ama perché vede in lui un’anima che soffre tormenti peggiori dei suoi. Sonja considera sé stessa perduta per sempre, per lui vede che c’è una possibilità di redenzione, ma solo se ammetterà la propria colpa e accetterà la sofferenza da ciò derivante e la pena. È, infatti, proprio Sonja a convincere Raskolnikov a costituirsi e lo segue fino in Siberia per stargli accanto durante la reclusione. Raskolnikov all’inizio è infastidito da questo amore che Sonja prova per lui, perché sente di non meritarlo e perché gli fa percepire ancora di più la gravità della sua azione, ma alla fine lo accetta e vi si abbandona completamente, in quanto capisce che questo lo aiuterà a redimersi e a rigenerarsi ad una nuova vita al termine della pena. Ritroviamo qui il tema dostoevskiano della sofferenza purificatrice e dei demoni presenti nella società e nell’animo umano che, se guardiamo bene, è il vero protagonista del romanzo. Un capolavoro di psicoanalisi alla stato puro con una manciata di filosofia e romanticismo. Un arcobaleno di sentimenti che si intrecciano tra loro. Per l’appunto una romanzo multicolore.

   


martedì 5 luglio 2016

Lettera a un bambino mai nato: un inno alla vita

Lettera a un bambino mai nato: un inno alla vita




Spesso si pensa che i libri di volume modesto siano leggeri anche nel contenuto.  La maggior parte delle volte non è così. I libri piccoli di spessore spesso sono micidiali. Colpiscono in profondità come una lama ben affilata. In essi l’autore somministra il suo miele a palate e senza diluirlo, come invece avviene con i romanzi lunghi. LETTERA A UN BAMBINO MAI NATO di Oriana Fallaci è uno di questi. Un libro piccolissimo, che si finisce in giorno, ma con tali e tanti significati, una profondità così grande che esso, nonostante la sua ridotta quantità di pagine, pesa come se ci fosse tutto il mondo dentro.  La protagonista è una donna senza nome né volto che scopre improvvisamente di essere incinta e imbastisce un dialogo, che in realtà è più un monologo, con il bambino che porta in grembo. Un bambino che, come dice il titolo, non nascerà.  Intorno a lei si muove una girandola di personaggi, anche essi senza nome né volto, che più o meno direttamente intervengono nella vicenda: il medico ottuso, la dottoressa ottimista, il padre menefreghista, l’amica della protagonista eccetera. Nel monologo emergono molte tematiche ancora, purtroppo, attuali. In primis la dura vita delle donne indipendenti che, solo perché sono tali, si vedono negare dal pensare comune il diritto ad essere felici e ad avere una famiglia senza dover rinunciare al lavoro. Una specie di sanzione per aver osato ricordare al mondo maschile che il corpo femminile non è un incubatrice né un giocattolo e soprattutto che appartiene alla donna, non al suo compagno.  Questioni bioetiche come il chiedersi se sia giusto sacrificare ciò che è per qualcosa che ancora non è, l’aborto, l’utero in affitto. Ancora le leggi di un mondo spietato che non fa sconti a nessuno, perennemente in attesa di un domani migliore che non arriva mai. In tutto questo, però, c’è un lumicino di speranza. La vita. La vita che, come la ginestra di Leopardi, resiste nonostante le mille avversità che le passano sopra come la lava di un vulcano. La vita che resiste a tutto, la vita che non muore perché la sua essenza, l’amore, è più forte di tutto, anche della morte. Questo piccolo inno alla vita è uno di quei libri che, una volta letti, ti cambiano dentro per sempre. Uno di quei libri che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita. Lasciarsi invadere dalla sua prosa poetica e mettere in moto gli ingranaggi della mente con gli innumerevoli spunti di riflessione che offre.  Un libro che va dritto al cuore, lasciandogli un marchio indelebile. Da leggere più e più e volte. Uno di quei pilastri da cui partire per costruire un mondo migliore, dove le donne non vengano più considerate dei sub-umani o delle incubatrici e dove il poter dare la vita non sia più considerato un incidente ma il grande miracolo che è.  Medita, mondo! Soprattutto voi maschi!  


Susan Mc Master, sei poesie da 'Haunt'

  Sei poesie da   HAUNT di SUSAN MC MASTER    a cura di Valentina Meloni   Symbiosis   The stuffed lion I bought when my ...