venerdì 2 dicembre 2016

I PROMESSI SPOSI di Alessandro Manzoni. Una dura fatica.



Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo avuto a che fare con I PROMESSI SPOSI, questo librone noioso, scritto in un italiano talmente astruso da sembrare quasi una lingua straniera.   Costretti a studiarlo a scuola, chissà quante volte lo abbiamo maledetto. Quante volte ci siamo detti “ma Manzoni non aveva niente di meglio da fare che scrivere un libraccio che piace solo ai bacucchi?” Me lo chiedevo anch’io, ai tempi del liceo, quando mi lambiccavo il cervello sulle sue pagine, cercando significati che non volevano lasciarsi trovare, e con i quali buttar giù i temi.   Quanto lo ho odiato! Poi, chissà perché, quest’anno mi è venuta voglia di riprenderlo, e così, in un ‘edizione diversa da quella scolastica, mi sono cimentata di nuovo in questa lettura e, benché non me ne sia perdutamente innamorata, l’ho rivalutato.  Ora che sulla lettura non pesavano più i temi da svolgere, l’ho riletto con uno spirito più predisposto verso quella che è una delle due punte di diamante della letteratura italiana, nonché con una mente più matura, quindi scevra da pregiudizi, e un maggiore senso critico. Con questi strumenti mi sono di nuovo incamminata per quel paesino sul lago di Como, di nuovo ho accompagnato Don Abbondio all’incontro con i bravi, seguito Renzo e Lucia nelle loro peripezie, scavato nell’anima dell’Innominato e della monaca di Monza, il personaggio che mi è piaciuto di più, assistito alla peste di Milano, appreso “il sugo di tutta la storia” e perfino riso per l’ironia dell’autore nel narrare fatti anche parecchio tragici.  Ebbene ora di questo libro, benché non lo ami particolarmente, non posso fare a meno di dire quel che Dostoevskij disse di Anna Karenina: I PROMESSI SPOSI è un’opera assolutamente perfetta.  Tanto nella trama quanto nella struttura.  Manzoni ci ha regalato uno specchio perfetto di quella che è la società italiana ancora oggi, a distanza di più di duecento anni.  I Don Rodrigo che oggi sono i boss mafiosi, i Renzo e Lucia che oggi sono le persone vessate dalle mille difficoltà della vita, con uno Stato corrotto e dormiente. Ce lo dimostra chiaramente nell’amaro racconto di quando, all’arrivo della peste, i potenti di Milano tutto fanno fuorché prendere le giuste precauzioni e “impiegano i danari del pubblico nello sproposito”.  In mezzo a tutto questo, però, l’autore non manca di inserire personaggi e situazioni positive, come il cardinal Federico Borromeo, sempre pronto ad aiutare tutti, l’Innominato che, dopo una vita dissoluta, si converte e diventa un santo in terra. Come a dire che non è mai troppo tardi per redimersi, per quanto male si sia fatto. Che nello stesso male può nascondersi il bene. Una scena che mi ha colpito particolarmente è il pezzo della madre di Cecilia, la bambina morta di peste che si avvia alla tomba vestita a festa. La compostezza e il dolore dignitoso in mezzo a tanto squallore. Nocciolo di tutto, la fede nella Provvidenza, che l’autore non si stanca mai di ribadire.  Come non si stanca mai di ribadire di sopportare con pazienza gli sgambetti della vita, che prima o poi tutto si aggiusta.  Un bel messaggio in un mondo come quello attuale. Cosi connesso eppure cosi solo. Cosi progredito tecnologicamente eppure mentalmente così indietro. Dove la speranza muore prima di nascere, pazienza e perseveranza non si sa più cosa siano e i lieti fini sono rari.  Rileggere questo libro mi ha fatto capire molto del paese in cui vivo, dell’animo umano e dell’uomo in generale, vero protagonista del romanzo.  Un’opera che vale la pena odiare da ragazzi e riscoprire da adulti, che vale la fatica durata a comprenderlo, che anche se non lo ami non puoi non apprezzare.  Insomma un rapporto complicato che non si può fare a meno di vivere.   



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