mercoledì 29 aprile 2020

VISIONI, COPIA & INCOLLA: Contaminazioni, prestiti e restituzioni


COPIA & INCOLLA: Contaminazioni, prestiti e restituzioni

RIASSUNTO: Un modo semiserio di affrontare il problema dei prestiti e delle restituzioni nelle opere d’arte a cominciare da quelle narrative e quindi dell’influenza e dei debiti di alcuni autori nei confronti di altri autori partendo da un esperimento compiuto ormai già dieci anni fa e che sembrava diventare una moda. Rimase confinato nella nicchia degli esperimenti e vide pochi risultati. Parlo degli esperimenti di copia-incolla di alcune pubblicazioni di anni addietro. E’, dicevo, un incipit semiserio per un’analisi di problemi come appunto la differenza tra influenza, copiatura, plagio, citazione ecc Naturalmente il problema della influenza sulla ispirazione è cosa seria e va affrontata caso per caso come nel tentativo che riporto in nota. Concludo questa analisi con un esperimento di copia-incolla che mi sono divertito a fare. Prometto solennemente che il prossimo contributo a questo blog sarà serissimo. Ovvero sarà un corollario del post su La terra desolata di Thomas Eliot che racconterà proprio due aspetti del problema che tratto qui: i debiti che lo stesso Eliot dichiara, in una nota a La terra desolata, di avere con Ovidio e il rapporto epistolare con un giovane amore che ha influito sulla sua ispirazione.




L’uso dei social e i moderni mezzi di comunicazione di massa ci hanno abituato in questi anni alla contaminazione dei linguaggi, attraverso prestiti e restituzioni.

C’è stato un periodo in cui una specie di moda come il “copia-incolla” ha contagiato anche autori di narrativa che hanno sperimentalmente usato questa specie di gioco per rinverdire la loro ispirazione. Sono nate e sono state pubblicate alcune opere interessanti  che con l’alibi della sperimentazione hanno preso la scorciatoia  rispetto al serissimo canone  che da sempre viene usato in tutte le forme espressive  e che viene chiamato di volta in volta  corrente letteraria , scuola di pittura , ecc che  pur usando  un suo linguaggio specifico è spesso la trasformazione e l’innovazione rispetto a scuole, correnti precedenti .Molti autori  confessano e dichiarano apertamente i loro debiti nei confronti delle opere  dei loro predecessori .

Molti autori, anche classici, devono molto alle traduzioni di scrittori stranieri e a volte dipendono fondamentalmente da quelle traduzioni. Scrive per esempio Alfonso Berardinelli recensendo Il saggio innovativo di Michele Sisto sull’influenza dei libri Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia (Quodlibet, pp. 317: “Le svolte più radicali avvenute nella nostra letteratura nell’Ottocento e nel Novecento sono state provocate più dalle suggestioni e dall’esempio di scrittori stranieri, tradotti o meno, che dal passato letterario italiano. La cosa è anche troppo chiara se si pensa al romanzo. Senza l’influenza di Goethe e di Sterne, la narrativa di Foscolo non sarebbe nata e senza la lettura dei romanzi storici di Walter Scott non sarebbe venuto in mente a Manzoni di scrivere I Promessi Sposi. Il più grande narratore del secondo Ottocento, Giovanni Verga, nasce direttamente dal romanzo realista e naturalista francese e senza le influenze francesi, tedesche e russe sarebbero inconcepibili Svevo, Pirandello e D’Annunzio. La Francia, del resto, ha continuato a dominare e a orientare diverse letterature europee almeno fino al 1945: prima con Valéry, Apollinaire, Proust e Gide, poi con Sartre e Camus, infine, fino a ieri, con strutturalisti e post strutturalisti come Barthes, Foucault, Derrida.”

Harold Bloom scrive in Anatomia dell’influenza .La letteratura come stile di vita   Rizzoli  Anatomia dell'influenza riflette su un ampio ventaglio di rapporti d'influenza. Shakespeare è il fondatore, e inizierò da lui, passando dall'influenza di Marlowe su Shakespeare a quella di Shakespeare sugli scrittori da John Milton a James Joyce. I poeti che scrissero in inglese dopo Milton tendevano a lottare contro di lui, ma ai tardoromantici toccò sempre fare una tregua anche con Shakespeare. In modi assai diversi, Wordsworth, Shelley e Keats dovettero stabilire, nella loro produzione poetica, un rapporto tra Shakespeare e Milton. Come vedremo, il meccanismo di difesa adottato da Milton contro Shakespeare è una rimozione altamente selettiva, mentre quello scelto da Joyce è un'appropriazione totale” (…) L'atto di privare il precursore del suo nome mentre si conquista il proprio coincide con la ricerca dei poeti poderosi o severi. La trasmutazione di Walter Whitman junior in Walt fu accompagnata dall'ambivalente venerazione del bardo americano per Emerson. (...) I miei studenti mi chiedono spesso perché i grandi scrittori non possano iniziare da zero, senza alcun passato alle spalle. Posso soltanto rispondere loro che non funziona così, perché, nella pratica, ispirazione significa influenza, come accade nel vocabolario di Shakespeare. Essere influenzati significa ricevere un insegnamento, e un giovane scrittore legge per cercare un ammaestramento, proprio come Milton leggeva Shakespeare, o come Crane leggeva Whitman, o Merrill leggeva Yeats. Dopo aver insegnato per più di mezzo secolo, ho capito di essere utile ai miei studenti soprattutto come provocazione, una consapevolezza che si è estesa alla mia attività di scrittore. Questo atteggiamento allontana alcuni lettori appartenenti al mondo dei media e dell'università, ma non sono loro il mio pubblico. Gertrude Stein osserva che si scrive per se stessi e per gli estranei. A mio avviso, ciò significa parlare sia con me stesso (che è quanto la grande poesia ci insegna a fare) sia con i lettori dissidenti di tutto il mondo che, nella solitudine, cercano istintivamente la qualità in letteratura, disdegnando i lemming che divorano J. K. Rowling e Stephen King mentre corrono giù per i dirupi, verso il suicidio intellettuale nell'oceano grigio di Internet.”

Faulkner non ha fatto mistero per l’influenza che Dostoevskij ha esercitato sulla sua opere come pure la Bibbia e Shakespeare. A influenzarlo sono stati soprattutto “I fratelli Karamazov”; confidando al poeta Hart Crane che nessuna opera dela letteratura americana eguaglia questo romanzo di Dostoevskij.
I l punto di incontro tra Faulkner e Dostoevskij è lo studio della psicologia di chi si trova a vivere una società in crisi. Una famiglia casuale descritta da Faulkner simboleggia gli stati d’animo e le condizioni dell’intera nazione (del Sud americano, per essere più precisi), così come i personaggi di Dostoevskij, sempre a un bivio di moralità, fede ed emozioni.

Insieme a Faulkener ci sono autori occidentali che hanno subito per così dire l’influenza di Dostoevskij: Friedrich Nietzsche, Jean-Paul Sartre,  Ernest Hemingway, Orhan Pamuk    (1)

Il “copia-incolla” quindi rende questa operazione immediata anche se a volte con una certa brutalità perché non fa altro che mutuare, gratuitamente, idee, stili, descrizioni assemblando pezzi di testo di uno o più autori per arrivare a qualcosa di nuovo e di diverso. E’ un semplice accostamento di frasi per “creare” un testo che abbia un senso logico e compiuto e quindi comprensibile dal lettore.

Ecco un esempio di qualche anno fa. Sulla copertina ci sono le parole di Jonathan Lethem,che non è l’autore. S’intitola Reality Hungher (2) e di quest’opera Geoff Dyer (3) scrive.”Ho  appena finito di leggere  Reality Hungher e mi ha illuminato, intossicato,estasiato sopraffatto. E’ un vetro attraverso cui guardare il mondo (come lo mostrano letteratura video e musica) e allo stesso tempo uno specchio attraverso il quale vederci riflessi, là in mezzo. Un libro oltraggioso ma anche un’opera che si compone leggendola”.

Apri il libro e trovi una lista numerata: l’arte è furto, sono contento di passare alla storia come l’uomo del copia incolla e 618 citazioni senza una virgoletta. Da Cicerone all’ultimo autore anche dal nome impronunciabile le citazioni si legano tra di loro e svolgono il filo logico e continuo di una storia. Alla fine una sequela di fonti: nomi e cognomi che è stato costretto ad aggiungere per non finire nei guai con l’invito per il lettore a prendere le forbici e tagliarle di netto.

Nabokov scriveva e non si stancava di ripeterlo: l’unica parola che può andare tra virgolette è la realtà. La massima originalità per lo scrittore è dunque rubare bene? Perché? Perché la grande letteratura è morta nell’Ottocento? Il passaggio dall’azione alla riflessione l’ha uccisa?

Del tramonto della realtà appunto è stato discusso nel Salone del Libro (anno 2010 ndr) ci si è domandato dove è finito lo scrittore.  Che cosa resta della società letteraria? Andrea Cortellessa critico letterario e Luca Archibugi regista nella loro inchiesta “Senza scrittori” prolungano il catalogo stilato da Alberto Arbasino nel suo “Paese senza” di tutte le cose di cui l’Italia è mancante.

“Racconta, come scrive  Francesco Erbani  lunedì 28 giugno 2010 su La Repubblica,   del predominio che la macchina editoriale,soprattutto quella dei grandi gruppi,  ha assunto nel mercato della letteratura , dove non ci sono più opere e scrittori , critici o riviste , ma solo libri , solo produzione industriale , solo una filiera perfettamente assestata, e nella quale,  però quella  che  un tempo si chiamava  la società letteraria  ha pensato bene di accomodarsi ,spintonando un po’ e anche dando  di gomito , ma trovando un cantuccio dove accomodarsi. “

In quel cantuccio   non ci si può permettere colpi di testa perché le grandi aziende editoriale non sono più guidate da singole persone come Valentino Bompiani, Livio Garzanti, Giulio Einaudi, Arnoldo Mondadori ed altri. Sono guidate da staff di funzionari che devono rispondere alla proprietà e ai manager su una cosa sola: il bilancio.  Più è potente l’editore più domina il mercato però solo all’interno delle regole di mercato. Guai ad uscirne con i colpi di testa che sono quelli che una piccola azienda può permettersi rischiando però e spesso di grosso. Rischiando anche nell’affermare la letterarietà del libro

Ma che cosa rende letterario un testo? Lo rende letterario quello che afferma l’americano Michael Cunningham, scrittore premiato con il Pulitzer: “Prendiamo quella che è probabilmente la frase più famosa della letteratura americana: - Call me Ishmael -  che è la frase di apertura del Moby Dick di Hermann Melville … Essa ha non solo autorità ma anche musicalità”
Ebbene queste tre parole che potrebbero equivalere a “Idiota leggi questo” hanno forza e sicurezza ma anche musicalità. In italiano “Chiamatemi Ismaele” è una frase: per continuare a tradurre Moby Dick dunque ne dovete tradurre ancora circa un milione di frasi: Ma l’autorità di questa prima frase dimostra l’autorità di quello che è uno scrittore Hermann Melville.
Certo ogni romanzo, se il romanziere è onesto e lo ammette, non è altro che una rozza approssimazione della storia che si voleva raccontare, probabilmente è il miglior libro scritto in quel momento, a scriverlo cinque anni dopo sarebbe completamente diverso.
Continua Cunningham  nella parte iniziale della sua Lectio Magistralis  “Il lettore, lo scrittore , il traduttore”  presentata  a Firenze  al premio Vallombrosa Gregor  Von Rizzori  tenutosi dal 16 al 18 giugno 2010 :”In ogni caso noi cerchiamo sempre cattedrali di fuoco , e parte dell’eccitazione nel leggere  un grande libro sta nella promessa  di un nuovo libro che non abbiamo ancora incontrato , un libro che possa toccarci ancora più profondamente , che possa farci innalzare ancora più in alto.  Una delle consolazioni nello scrivere libri sta nella convinzione apparentemente invincibile che il prossimo libro sarà migliore, sarà più grande e coraggioso, e più esaustivo e fedele alle vite che viviamo. Rimaniamo in uno stato di speranza continua, amiamo la bellezza e la verità che vengono a trovarci e facciamo del nostro meglio per mettere a tacere dubbi e delusioni. È questa la nostra particolarità. Questa la nostra gloria. Siamo alla ricerca di qualcosa, e non veniamo scoraggiati dal sospetto collettivo che la perfezione che cerchiamo nell’arte abbia la stessa possibilità del santo Graal di venire trovata. Questa è una delle ragioni per cui noi, e intendo noi esseri umani, siamo non solo creatori, traduttori e consumatori di letteratura, ma della letteratura siamo anche i soggetti.”

Dunque contaminazioni, prestiti e restituzioni ma anche citazioni ed esame del punto critico appunto tra citazione e plagio e tra ispirazione, influenza e debito, fino agli imitatori e ai falsari in letteratura ma anche nella storia dell’arte.  Per non tacere per esempio nella storiografia dove non può essere considerata come una semplice διαδοχή, ossia una successione lineare di autori, perché è molto difficile valutare il grado di consapevolezza di uno scrittore nei confronti dei suoi predecessori, siano essi storici o esponenti di altri generi letterari.

 “Smettila di abusare dei miei versi, o pubblicane alcuni dei tuoi diceva Marco Valerio Marziale. Ho letto un aneddoto, racconta che un giorno “si presentò a Michelangelo un pittore che voleva un suo giudizio su un proprio quadro, ritenendolo un capolavoro. In realtà l’opera era stata realizzata scopiazzando vari pittori. Michelangelo sorrise, e disse: "Dovreste guardare il vostro quadro nel giorno del Giudizio: allora, se ognuno vorrà riprendere le proprie membra, a voi non rimarrà che la tela “

Ho fatto un esperimento di un copia incolla così per gioco da alcuni testi di Eugenio Montale ma prima di trascrivere il risultato voglio parlarvi delle opere che ho usato e prometto nel prossimo post di questa rubrica vi proporrò un lavoro molto più serio. Ossia, partendo proprio da quella riflessione che anche qui accenno sulle contaminazioni attraverso i prestiti e le restituzioni, in maniera nobile, cercherò di raccontare il debito, che egli stesso riconosce in due note allegate all’edizione de La terra desolata di Thomas Eliot nei confronti di Ovidio.

Il mio personale esperimento di copia incolla.

Dov’era una volta il tennis, nel piccolo rettangolo difeso dalla massicciata su cui dominano i pini selvatici, cresce ora la gramigna e raspano i conigli nelle ore di libera uscita. Qui vennero un giorno a giocare due sorelle, due bianche farfalle, nelle prime ore del pomeriggio. Verso levante la vista è ancora libera e le umide rocce del Corone maturano sempre l’uva forte per lo sciacchetrà. E’ curioso pensare che ognuno di noi ha un paese come questo e, sia pur diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio immutabile
Accade che le affinità d’anima non giungano
Ai gesti e alle parole ma rimangono
Effuse come un magnetismo. E’ raro
Ma accade

Può darsi che sia vera soltanto la lontananza verso l’oblio, era la foglia secca
Più del fresco germoglio.
Tanto ed altro può darsi o dirsi.

Comprendo la tua caparbia volontà di essere sempre assente
Perché solo così si manifestala tua magia.
Innumeri le astuzie che intendo.
Da tempo stiamo provando la rappresentazione
ma il guaio è che non siamo sempre gli stessi
.

Molti sono già i morti, altri cambiano sesso,
mutano barbe volti lingua o età.
Da anni prepariamo (da secoli) le parti,
“il signore è servito” e nulla di più.
da millenni attendiamo che qualcuno
ci saluti al proscenio con battimani
o anche con qualche fischio, non importa,
purché ci riconforti un nous sommes là.
Purtroppo non pensiamo in francese e così
restiamo sempre al qui e mai al là.
Le parole
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta di Fabriano, l’inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto.
Le parole
quando si svegliano
si adagiano sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto
delle partecipazioni
matrimoniali o di lutto.
Le parole non chiedono meglio
che l’imbroglio dei tasti
nell’Olivetti portatile,
che il buio dei taschini, che il fondo

dei cestini, ridottevi
in pallottole;
le parole non sono affatto felici
di essere buttate fuori
come zambracche e accolte
con furore di plausi
e disonore;
le parole
sono di tutti e invano
si celano nei dizionari
perché c’è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;
le parole
dopo una lunga attesa
rinunziano alla speranza di essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.
(Le parole, Satura II)
Da Eugenio Montale: Dov'era il tennis, Ex voto, Qui e là, Le Parole (4)

NOTA 1

Molti ritengono le “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij una specie di diario della follia e uno dei primi esempi di esistenzialismo. Quest’opera del romanziere russo ha avuto una grande influenza su Jean-Paul Sartre e Soren Kierkegard. Friedrich Nietzsche, ha definito “Memorie dal sottosuolo” un lavoro psicologico magistrale. Nietzsche aveva un grande interesse per la letteratura russa e leggeva Pushkin, Lermontov e Gogol. Dostoevskij è per il filosofo tedesco una delle scoperte più felici della sua vita. “Conosci Dostoesvkij? A parte Stendhal, nessuno è stato una così bella sorpresa per me e nessuno mi ha fatto tanto piacere. È uno psicologo con cui trovo un terreno comune. Sembra che avesse letto anche “Umiliati e offesi” con le lacrime agli occhi, e Delitto e castigo  .L’Idiota” (la sua teoria dell’Anticristo è un opposto del principe Myshkin) e “Memorie dalla casa dei morti” (non era soddisfatto del pessimismo russo).

Sartre, dice “L’esistenzialismo è un umanismo”. La frase sintetizza le opinioni anticlericali di Ivan Karamazov. Nell’interpretazione di Sartre ciò significa che se Dio non esistesse, allora gli umani sarebbero responsabili di tutto, senza alcuna possibilità di chiedere il perdono. Probabilmente è la stessa cosa scritta da “Dostoevskij: ‘Se Dio non esistesse, allora tutto sarebbe permesso’ che sembra essere per l’esistenzialismo un punto di partenza”.  Dostoevskij mise in primo piano questa ricerca di significato e cercò di risolvere il mistero della responsabilità, tra se stessi e Dio, nei personaggi di Raskolnikov in “Delitto e castigo”, di Stavrogin ne “I Demoni” e di Ivan Karamazov ne “I fratelli Karamazov”. Tuttavia, la fede è la risposta principale di Dostoevskij a tutte le domande, cosa che è in contrasto con l’esistenzialismo occidentale.

L’atteggiamento di Hemingway nei confronti di Dostoevskij si legge in “Festa mobile”. “In Dostoevskij c’erano cose da credere e cose da non credere, ma alcune così vere da cambiarti mentre le leggevi; fragilità e follia, cattiveria e santità e l’insania del gioco, ti balzavano agli occhi come il paesaggio e le strade in Turgenev, e il movimento delle truppe, il terreno e gli ufficiali e gli uomini combattimenti in Tolstoj”.


Pamuk ammette che Tolstoj sia un romanziere più magistrale, ma personalmente è stato molto più influenzato dal Dostoevskij politico. In una conferenza a San Pietroburgo, Pamuk ha affermato che quando ha letto per la prima volta “I fratelli Karamazov”, ha capito che la sua vita era completamente cambiata. Pamuk sentiva persino che Dostoevskij gli stesse parlando direttamente, rivelandogli qualcosa sulle persone e sulla vita che nessun altro conosce.Già a  ventanni, Pamuk  aveva letto  “I Demoni” rimanendone sconcertato perché  n iente di ciò che aveva letto prima gli aveva fatto una tale impressione. Era scioccato da quanto forte potesse essere la sua passione per il potere e allo stesso tempo era stupito dalla sua capacità di perdonare e dal bisogno di avere fede. La brama di tutte le cose sporche e sante nello stesso momento; questo è ciò che ha fatto riflettere Pamuk profondamente.

 Fonte  https://it.rbth.com/cultura/80465-cinque-scrittori-occidentali-influenzati-da-dostoevskij

NOTA 2

Reality Hunger: A Manifesto è un libro di saggistica dello scrittore americano David Shields , pubblicato da Knopf  il 23 febbraio 2010. Il libro è scritto in stile collage, mescolando le citazioni dell'autore con quelle di una varietà di altre fonti. Il manifesto del libro è diretto ad aumentare il coinvolgimento dell'arte con la realtà della vita contemporanea attraverso l'esplorazione di generi ibridi come la poesia in prosa e il collage letterario. In Vanity Fair, Elissa Schappell ha definito Reality Hunger "un richiamo alle armi per tutti gli artisti per rifiutare le leggi che regolano l'appropriazione, cancellare i confini tra finzione e saggistica e dare origine a una nuova forma moderna per un nuovo secolo".




NOTA 3

Geoff Dyer (Cheltenham, 5 giugno 1958) è uno scrittore britannico. Ha studiato al Corpus Christi College di Oxford. Il suo primo libro è un saggio su John Berger, Ways of Telling: The Work of John Berger (1986), mentre il suo primo romanzo è Il colore della memoria (1989), di carattere autobiografico, ambientato negli anni ottanta a Brixton, a sud di Londra. Ha raggiunto la notorietà con Natura morta con custodia di sax. Storie di jazz (But Beautiful) (1991), con il quale ha vinto il Somerset Maugham Award.
Scrive regolarmente per quotidiani e riviste britanniche, come The Guardian, The Independent, New Statesman ed Esquire. Alcuni dei suoi articoli dalle più diverse parti del mondo sono stati raccolti nel libro di storie di viaggio Yoga per gente che proprio non ne vuole sapere (Yoga For People Who Can't Be Bothered To Do It) (2003). Nel 2005 ha pubblicato una personalissima storia della fotografia, L'infinito istante. Saggio sulla fotografia (The Ongoing Moment) (2005).

Nota 4

EUGENIO MONTALE, DOV' ERA IL TENNIS...


(Poemetto in prosa di Eugenio MontaleDov’era il tennis, nella raccolta La Bufera e altro. Il tema è identico a quello delle Immagini di Roma i: lo struggimento, la nostalgia nel ripensare al passato, all’infanzia, a incontri fatti, si concretizza (Montale parlava di correlativo oggettivo) in un paesaggio, magari minuscolo. Si capisce che li può esserci il senso di tutto, del proprio destino,)

Dov'era una volta il tennis, nel piccolo rettangolo difeso dalla massicciata su cui dominano i pini selvatici, cresce ora la gramigna e raspano i conigli nelle ore di libera uscita.
  Qui vennero un giorno a giocare due sorelle, due bianche farfalle, nelle prime ore del pomeriggio. Verso levante la vista era (è ancora) libera e le umide rocce del Corone maturano sempre l'uva forte per lo 'sciacchetrà'. E' curioso pensare che ognuno di noi ha un un paese come questo, e sia pur diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio, immutabile; è curioso che l'ordine fisico sia così lento a filtrare in noi e poi così impossibile a scancellarsi. Ma quanto al resto? a conti fatti, chiedersi il come e perché della partita interrotta è come chiederselo della nubecola di valore che esce dal cargo arrembato, laggiù sulla linea della Palmaria. Fra poco s'accenderanno nel golfo le prime lampare.
  Intorno, a distesa d'occhio, l'iniquità degli oggetti persiste intangibile. La grotta incrostata di conchiglie dev'essere rimasta la stessa nel giardino delle piante grasse, sotto il tennis; ma il parente maniaco non verrà più a fotografare al lampo di magnesio il fiore unico, irripetibile, sorto su un cacto spinoso e destinato a una vita di poche istanti. Anche le ville dei sudamericani sembrano chiuse: Non sempre ci furono eredi pronti a dilapidare la lussuosa paccottiglia messa insieme a suon di pesos o di milreis. O forse la sarabanda dei nuovi giunti segna il passo in altro contrade: qui siamo perfettamente defilati, fuori tiro. Si direbbe che la vita non possa accedervi che a lampi e si pasca solo di quanto s' accumula inerte e va in cancrena in queste zone abbandonate.
 Del salòn en el àngulo oscuro - silenciosa y cubierta de polvo - veìase el arpa...'Eh sì, il museo sarebbe impressionante se si potesse scoperchiare l'ex paradiso del Liberty. Sul conchiglione-terrazzo sostenuto da un Nettuno gigante, ora scrostato, nessuno apparve più dopo la sconfitta elettorale del Leone del Callao; ma là, sull' esorbitante bovindo affrescato di peri meli e serpenti da paradiso terrestre, pensò invano la signora Paquita buonanima di produrre la sua serena vecchiaia confortata di truffatissimi agi e del sorriso della posterità. Vennero un giorno i mariti delle figlie, i generi brazileiri e gettata la maschera fecero man bassa di quel ben di Dio. Della duena e degli altri non si seppe più nulla. Uno dei discendenti rispuntò poi fuori in una delle ultime guerre e fece miracoli. Ma allora si era giunti sì e no ai tempi dell'inno tripolino. Questi oggetti, queste case, erano ancora nel circolo vitale, fin ch 'esso durò. Pochi sentirono dapprima che il freddo stava per giungere; e tra questi forse mio padre che anche nel più caldo giorno d' agosto, finita la cena all'aperto, piena di falene e d' altri insetti, dopo essersi buttato sulle spalle uno scialle di lana, ripetendo sempre in francese, chissà perchè, " il fait bien froid, bien froid", si ritirava subito in camera  per finir di fumarsi a letto il suo Cavour da sette centesimi.

EUGENIO MONTALE, Ex voto (Satura, Milano, Mondadori 1971)

Accade
che le affinità d'anima non giungano
ai gesti e alle parole ma rimangano
effuse come un magnetismo. È raro
ma accade.

Può darsi
che sia vera soltanto la lontananza,
vero l'oblio, vera la foglia secca
più del fresco germoglio. Tanto e altro
può darsi o dirsi.

Comprendo
la tua caparbia volontà di essere sempre assente
perché solo così si manifesta
la tua magia. Innumeri le astuzie
che intendo.

Insisto
nel ricercarti nel fuscello e mai
nell'albero spiegato, mai nel pieno, sempre
nel vuoto: in quello che anche al trapano
resiste.

Era o non era
la volontà dei numi che presidiano
il tuo lontano focolare, strani
multiformi multanimi animali domestici;
fors'era così come mi pareva
o non era.

Ignoro
se la mia inesistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca,
se l'innocenza è una colpa oppure
si coglie sulla soglia dei tuoi lari. Di me,
di te tutto conosco, tutto
ignoro.



LE PAROLE da Satura, Satura II

Le parole
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta
di Fabriano, l’inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto;
le parole
quando si svegliano
si adagiano sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto,
sulle partecipazioni
matrimoniali o di lutto;
le parole
non chiedono di meglio
che l’imbroglio dei tasti
nell’Olivetti portatile,
che il buio dei taschini
del panciotto, che il fondo
del cestino, ridottevi
in pallottole;
le parole
non sono affatto felici
di essere buttate fuori
come zambracche e accolte
con furore di plausi e
disonore;
le parole
preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;
le parole
sono di tutti e invano
si celano nei dizionari
perché c’è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;
le parole
dopo un’eterna attesa
rinunziano alla speranza
di essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.
Qui e Là da “Poesie” ed. Mondadori 2004

Da tempo stiamo provando la rappresentazione,
ma il guaio è che non siamo sempre gli stessi.
Molti sono già morti, altri cambiano sesso,
mutano barbe volti lingua o età.
Da anni prepariamo (da secoli) le parti,
la tirata di fondo o solamente
«il signore è servito» e nulla più.
Da millenni attendiamo che qualcuno
ci saluti dal proscenio con battimani
o anche con qualche fischio, non importa,
purché ci riconforti un «nous sommes là».
Purtroppo non pensiamo in francese e così
restiamo sempre al qui e mai al là.





martedì 28 aprile 2020

TI HO INCONTRATA IN UN SOGNO di Thierry Cohen, la voce dell'anima

TI HO INCONTRATA IN UN SOGNO di Thierry Cohen, la voce dell'anima

Recensione a cura di Selene Luise




Io non credo nell’amore. Per lo meno non nel tipo di amore che piace tanto ai media e a certi poeti. Esso, infatti, non esiste. Non è altro che una fiaba destinata a svanire come una bolla di sapone di fronte alla dura realtà. L’amore, quello vero, è un ‘altra cosa, come ho già detto in un’altra
recensione. In essa accennai ad un altro libro che, insieme a quello oggetto della riflessione, mi portò alla consapevolezza di quanto appena detto. Quel libro è TI HO INCONTRATA IN UN SOGNO (PIEMME Edizioni). A dispetto del titolo, non è un romanzetto rosa scritto per prendere per il naso gli stolti e i romantici. Esso è realismo allo stato puro. Un capolavoro capace di arrivare dritto al cuore. Di fare il suo dovere di “ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”, ma piacevolmente, come una fiammella che a poco a poco scioglie il ghiaccio. I protagonisti sono tre: Jonas, ragazzo romantico, con la testa un po’ tra le nuvole, che vive in attesa del vero amore, rappresentato da una ragazza vista in sogno; Lior, ragazza disincantata che, a causa di varie disavventure , non si fida più del genere maschile. Il terzo, e non meno importante, protagonista è monsieur Hillel, un vecchio libraio che ama definirsi un “combina matrimoni”, solo che lui fa incontrare persone e libri. E’ convinto , infatti, che il suo compito sia aiutare i lettori a trovare il loro “romanzo-luce” , cioè il libro che deve far loro da guida nel corso dell’esistenza. Questi tre personaggi non potrebbero essere più diversi, ma la vita, anche con i suoi scherzi, li farà incontrare, cambiando per sempre i loro destini. La trama, complessa e semplice allo stesso tempo, trascina il lettore nel turbinio dei sentimenti umani, ma lo fa dolcemente, senza fretta. Quando lo si legge, si ha la sensazione di essere presi per mano dall’autore e portati accanto ai personaggi che, piano , piano , ti aprono la loro anima. È come se anche il lettore diventasse parte della storia. Ad esso mi approcciai perché, dalle citazioni, vidi che parlava di libri, ma non immaginavo di aver davanti la mia anima messa su carta. Sembrava che quel libro fosse stato scritto apposta per me, per ricordarmi che si può essere felici anche se la vita ti fa uno sgambetto o non ti concede tutto ciò che desideri. Non mi ha dato la fiducia nell’amore, però, quando lo rileggo, sento placarsi in me l’inquietudine e riattizzarsi il lumicino della speranza nel futuro. Forse sono solo sogni, ma ogni tanto è bene illudersi un po’. Libro che consiglio a tutti. A chi è vive un periodo difficile o è stato messo al muro dalla vita. Ma soprattutto alle persone eccessivamente romantiche, convinte che la vita sia tutto rose e fiori, poiché le riporterebbe un po’ con i piedi per terra. Agli amanti della lettura , e anche ai non, così capirebbero quanto è bello, utile e salutare leggere, quanto potere ha la scrittura.




lunedì 20 aprile 2020

Le venti regole per scrivere un poliziesco



Le venti regole per scrivere un poliziesco
di Federico Del Monaco



Anche il racconto più fantasioso dovrebbe avere una certa coerenza interna. Più si va avanti e meno i generi letterari mantengono una netta distinzione eppure alcune trame necessitano di un rigore più logico.
Non voglio certo affermare che scrivere una storia d’amore sia meno difficile di un romanzo storico, tra l’altro è pieno di romanzi storici con storie d’amore, ma è tradizione che le trame avvolte da un mistero debbano avere un minimo di logica. Una volta, prima di internet e della globalizzazione, se scrivevi un giallo dovevi seguire delle regole o quantomeno aderire ad un certo codice etico.
Se oggi è l’autore che costruisce la sua struttura narrativa, pratica caldamente consigliata pur non essendo obbligatoria, in passato ci furono molti scrittori che stilarono dei veri e propri regolamenti.
Willard Huntington Wright, giallista conosciuto con lo pseudonimo di S. S. Van Dine, tra la prima e la seconda guerra mondiale scrisse le sue “Venti regole per chi scrive romanzi polizieschi”, ripubblicate nel 1948 e giunte in Italia tardissimo, dopo quasi cinquant’anni dalla prima stesura. Personalmente le ho sempre trovate utili ma soprattutto divertenti, soprattutto l’ultima regola, che vieta l’utilizzo di abusati cliché. Buona lettura, cari scrittori: se riuscirete a seguire ogni direttiva potrete affermare, senza temere di essere smentiti, di aver scritto un poliziesco a regola d’arte.
Venti regole per chi scrive romanzi polizieschi di S. S. Van Dine

  1.      Il lettore deve avere le stesse possibilità del poliziotto di risolvere il mistero. Tutti gli indizi e le tracce debbono essere chiaramente elencati e descritti.
  2.      Non devono essere esercitati sul lettore altri sotterfugi e inganni oltre quelli che legittimamente il criminale mette in opera contro lo stesso investigatore.
  3.      Non ci dev'essere una storia d'amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all'altare.
  4.      Né l'investigatore né alcun altro dei poliziotti ufficiali deve mai risultare colpevole. Questo non è un buon gioco: è come offrire a qualcuno un soldone lucido per un marengo; è una falsa testimonianza.
  5.      Il colpevole dev'essere scoperto attraverso logiche deduzioni: non per caso, o coincidenza, o non motivata confessione. Risolvere un problema criminale a codesto modo è come spedire determinatamente il lettore sopra una falsa traccia per dirgli poi che tenevate nascosto voi in una manica l'oggetto delle ricerche. Un autore che si comporti così è un semplice burlone di cattivo gusto.
  6.      In un romanzo poliziesco ci dev'essere un poliziotto, e un poliziotto non è tale se non indaga e deduce. Il suo compito è quello di riunire gli indizi che possono condurre alla cattura di chi è colpevole del misfatto commesso nel capitolo I. Se il poliziotto non raggiunge il suo scopo attraverso un simile lavorio non ha risolto veramente il problema, come non lo ha risolto lo scolaro che va a copiare nel testo di matematica il risultato finale del problema.
  7.      Ci dev'essere almeno un morto in un romanzo poliziesco e più il morto è morto, meglio è. Nessun delitto minore dell'assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio di energie del lettore dev'essere remunerato!
  8.       Il problema del delitto deve essere risolto con metodi strettamente naturalistici. Apprendere la verità per mezzo di scritture medianiche, sedute spiritiche, la lettura del pensiero, suggestione e magie, è assolutamente proibito. Un lettore può gareggiare con un poliziotto che ricorre a metodi razionali: se deve competere anche con il mondo degli spiriti e con la metafisica, è battuto ab initio.
  9.      Ci deve essere nel romanzo un poliziotto, un solo "deduttore", un solo deus ex machina. Mettere in scena tre, quattro, o addirittura una banda di segugi per risolvere il problema significa non soltanto disperdere l'interesse, spezzare il filo della logica, ma anche attribuirsi un antipatico vantaggio sul lettore. Se c'è più di un poliziotto, il lettore non sa più con chi sta gareggiando: sarebbe come farlo partecipare da solo a una corsa contro una staffetta.
  10.     Il colpevole deve essere una persona che ha avuto una parte più o meno importante nella storia, una persona cioè, che sia divenuta familiare al lettore, e lo abbia interessato.
  11.     I servitori non devono essere, in genere, scelti come colpevoli: si prestano a soluzioni troppo facili. Il colpevole deve essere decisamente una persona di fiducia, uno di cui non si dovrebbe mai sospettare. 
  12.     Nel romanzo deve esserci un solo colpevole, al di là del numero degli assassinii. Ovviamente che il colpevole può essersi servito di complici, ma la colpa e l'indignazione del lettore devono ricadere su un solo cattivo. 
  13.       Società segrete, associazioni a delinquere et similia non trovano posto in un vero romanzo poliziesco. Un delitto interessante è irrimediabilmente sciupato da una colpa collegiale. Certo anche al colpevole deve essere concessa una "chance": ma accordargli addirittura una società segreta è troppo. Nessun delinquente di classe accetterebbe.
  14.     I metodi del delinquente e i sistemi di indagine devono essere razionali e scientifici. Vanno cioè senz'altro escluse la pseudo-scienza e le astuzie puramente fantastiche, alla maniera di Jules Verne. Quando un autore ricorre a simili metodi può considerarsi evaso, dai limiti del romanzo poliziesco, negli incontrollati domini del romanzo d'avventura.
  15.     La soluzione del problema deve essere sempre evidente, ammesso che vi sia un lettore sufficientemente astuto per vederla subito. Se il lettore, dopo aver raggiunto il capitolo finale e la spiegazione, ripercorre il libro a ritroso, deve constatare che in un certo senso la soluzione stava davanti ai suoi occhi fin dall'inizio, che tutti gli indizi designavano il colpevole e che, se fosse stato acuto come il poliziotto, avrebbe potuto risolvere il mistero da sé, senza leggere il libro sino alla fine. Il che - inutile dirlo - capita spesso al lettore ricco d'istruzione.
  16.     Un romanzo poliziesco non deve contenere descrizioni troppo diffuse, pezzi di bravura letteraria, analisi psicologiche troppo insistenti, presentazioni di "atmosfera": tutte cose che non hanno vitale importanza in un romanzo di indagine poliziesca. Esse rallentano l'azione, distraggono dallo scopo principale che è: porre un problema, analizzarlo, condurlo a una conclusione positiva. Si capisce che ci deve essere quel tanto di descrizione e di studio di carattere che è necessario per dare verosimiglianza alla narrazione.
  17.     Un delinquente di professione non deve mai essere preso come colpevole in un romanzo poliziesco. I delitti dei banditi riguardano la polizia, non gli scrittori e i brillanti investigatori dilettanti. Un delitto veramente affascinante non può essere commesso che da un personaggio molto pio, o da una zitellona nota per le sue opere di beneficenza.
  18.     Il delitto, in un romanzo poliziesco, non deve mai essere avvenuto per accidente: né deve scoprirsi che si tratta di suicidio. Terminare una odissea di indagini con una soluzione così irrisoria significa truffare bellamente il fiducioso e gentile lettore.
  19.     I delitti nei romanzi polizieschi devono essere provocati da motivi puramente personali. Congiure internazionali ecc. appartengono a un altro genere narrativo. Una storia poliziesca deve riflettere le esperienze quotidiane del lettore, costituisce una valvola di sicurezza delle sue stesse emozioni.
  20.     Ed ecco infine, per concludere degnamente questo "credo", una serie di espedienti che nessuno scrittore poliziesco che si rispetti vorrà più impiegare; perché già troppo usati e ormai familiari ad ogni amatore di libri polizieschi. Valersene ancora è come confessare inettitudine e mancanza di originalità:
(a) Scoprire l'identità del colpevole confrontando il mozzicone di una sigaretta lasciata sulla scena del crimine con il marchio fumato da un sospetto.
(b) La falsa seduta spiritica che spaventa il lettore e quindi confessa.
(c) Impronte digitali falsificate.
(d) Un finto alibi.
(e) Il cane che non abbaia e quindi rivela il fatto che il colpevole è familiare.
(f) Il colpevole risulta un gemello, o un sosia del sospetto, che quindi è innocente.
(g) Siringhe che iniettano veleno o gocce nelle bevande.
(h) Il delitto commesso in una stanza chiusa a chiave dopo che la polizia vi ha fatto irruzione.
(i) Associazioni di parole che rivelano il colpevole.
(j) Un codice, o una lettera di codice, che alla fine viene risolta dal detective.







mercoledì 15 aprile 2020

VISIONI: La terra desolata di Thomas Eliot



Per Eliot la sua “Terra desolata” è una terra il cui scenario può ripetersi in ogni luogo e in ogni tempo per ciascun uomo, per ciascuno di noi che leggiamo oggi i suoi versi e per quelli che li leggeranno in futuro. 

“Aprile è il più crudele dei mesi, genera
lillà da terra morta, confondendo
memoria e desiderio,risvegliando
le radici sopite  con la pioggia della primavera”




Quattro versi. I primi quattro versi de La terra desolata (The Waste Land) di Thomas Eliot che valgono l’intero poema. Un poema pubblicato nel 1922, quattrocentotrentatre versi in tutto. Poche parole nella loro totalità di un immenso vocabolario che evocano la transizione, la dissoluzione e la rinascita che è quello che la primavera fa portandosi dietro un poco di inverno e tendendo lo sguardo alla successiva estate. Ciclicamente, un anno dopo l’altro, una stagione dopo l’altra. Così il mondo attraverso la primavera ritrova il senso e il valore del cambiamento. Il mondo diventa un’altra cosa alla fine dell’autunno e quindi dell’inverno con il loro desolato destino di morte, di silenzio, di freddo e gelo. Con la primavera sembra che tutto scompaia.

“L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse
con immemore neve la terra, nutrì
con secchi tuberi una vita misera
l’estate ci sorprese…”

La primavera dona una nuova memoria a quello che nacque da una immemore neve e confonde poi il desiderio che l’estate accoglie, raccoglie e convoglia verso una nuova morte. E di morte in morte il mondo cambia, il tempo cambia su una terra che si fa “desolata”. Ma il viaggio pur lungo, difficoltoso, pieno di ostacoli e peripezie, è un viaggio in cerca di salvezza. E quale salvezza più dell’acqua.  Si parte dalla triste profezia di Tiresia sulla terra impura per finire con una pioggia salvifica appunto vicino al fiume Gange. L’acqua dunque salvezza eterna. Da quella del fonte battesimale che salva dal peccato originale all’acqua del diluvio che culla l’arca di Noè. L’acqua che salva l’uomo e gli animali affrancandoli dalla punizione, l’acqua che ricrea un nuovo Eden dopo ilo suo ritiro. L’acqua e il suo noti nel tempo e nello spazio.

“La terra desolata” viene introdotta da una dedica ad Ezra Pound ed è divisa in cinque parti: la sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il sermone del fuoco, Morte per acqua, Ciò che disse il tuono. Affollano questi versi voci che parlano individualmente e usano molte lingue (latino, greco, tedesco, francese, sanscrito), fanno riferimenti letterari con allusioni e citazioni a Dante, Shakespeare, Ovidio, Omero, Baudelaire. Sono il ricorso ad una “cultura alta” che però viene accostata ad una “cultura bassa” con il ricorso ad altri linguaggi comprese le filastrocche per bambini. Tutto un magma che si muove, ondeggia, si ritira, sbanda, va dritto al suo obiettivo. Ma allo stesso tempo una profonda immersione archeologica in una stratigrafia letteraria dalla quale emergono reperti sedimentati ormai in pace con il mondo ma anche fuochi, geyser di interessi e di rilancio proprio di quelle sedimentazioni che non hanno ancora finito di svolgere la loro azione sul passato, il presente e il futuro legati assieme non da una linearità ma da una circolarità. Una incursione in mondi diversi antichi e moderni, reali e fantastici, vecchi e nuovi. Lo stesso Eliot disse di aver tratto ispirazione da due opere pubblicate quando componeva “La terra desolata”, “From ritual to romance “di Jesse Weston e “The Golden Bough” di James Frazer (Il ramo d’oro, pubblicato nel 1895, ampliato fino alla stesura definitiva del 1915). Terra desolata che viene pubblicata contemporaneamente all’Ulisse di Joyce.
Ora in particolare l’Ulisse doveva essere una delle novelle pubblicate in Gente di Dublino, doveva presentare un’altra storia di frustrazione della Dublino del suo tempo. Voleva presentare la vita di un piccolo borghese additato dalla morale cattolica irlandese come “contento e cornuto”. Lo chiamerà Ulisse come l’epopea di due razze (Israele –Irlanda). Userà dal 1917, quando inizia a scrivere questo capolavoro, una mappa di Dublino per cercare tutti i particolari storici per cui questo racconto sarà un capitolo della storia dell’Irlanda ma anche un capitolo della storia del mondo oltre ad essere una storia segreta dell’animo umano.
La prima sezione di “The Waste Land” ha per titolo: “The burial of the dead”, la sepoltura dei morti e fa esplicito riferimento all’officio funebre della religione cristiana ed è preso proprio da un verso dell’ufficio dei defunti della sepoltura nel rito anglicano. Ma non è l’unica allusione o riferimento religioso.  Eliot pensa in questi versi alla “sepoltura dell’immagine di Dio” ma non come alla “morte di Dio” che una certa filosofia successiva al suo tempo ha teorizzato, bensì ad un “rito di rinascita “contenuto nei riti vegetali e infine allude anche metaforicamente alla sepoltura dell’uomo per le condizioni in cui l’uomo è costretto a vivere in quel tempo.
In sostanza questo inizio rende universalmente il senso di quello che è per Eliot appunto la sua terra desolata. Una terra il cui scenario può ripetersi in ogni luogo e in ogni tempo per ciascun uomo, per ciascuno di noi che leggiamo oggi i suoi versi e per quelli che li leggeranno in futuro. Le evoluzioni potranno essere diverse, come pure le soluzioni. Resta il fatto che questa “terra desolata” è “una antologia dei punti culminanti di un dramma”.  Un’opera della letteratura del Novecento che ha influenzato le generazioni successive di poeti e nel suo valore emblematico ha interpretato un’apocalisse, una fine del mondo.

“April is the cruellest month”, aprile che è il più crudele dei mesi dà voce a quattro personaggi narranti ed è un vero e proprio monologo drammatico che cambia voce di tratto in tratto. Quattro voci che sembrano affollarsi e che danno la sensazione di una moltitudine. È la folla anonima, il caos della società contemporanea del tempo di Eliot.  Un caos ben rappresentato proprio da una specie di Babele delle lingue che è allegoria dell’Europa a lui contemporanea. Le altre quattro parti di The Waste Land non sono altro che la specificazione, l’approfondimento di questa idea di terra. Esse declinano ognuna per proprio conto un aspetto di questa desolazione.

“A game of chess” (Una partita a scacchi) è il titolo della seconda sezione e viene dal titolo di un’opera di Thomas Middleton Woman Beware Women (1657). Raffronta l’antico splendore con il presente squallore. Ogni mossa nel gioco degli scacchi è una mossa di seduzione nei confronti di una donna. Qui Eliot parla della mancanza di valori che porta all’incomunicabilità. La prima scena parla di una coppia famosa Antonio e Cleopatra, poi Didone ed Enea per arrivare fino allo stupro di Filomela raccontato dalle Metamorfosi di Ovidio. La donna dopo essere stata stuprata viene trasformata in un usignolo che canta la malvagità degli uomini. La seconda parte di questa sezione si apre in un pub di Londra in cui compaiono due donne che parlano tra loro. I versi raccontano la storia di Lili e Albert. La donna ha un aspetto trasandato per le gravidanze e l’uomo è un reduce dal fronte. Nessun valore morale sembra dare loro dignità. Il brano termina con l’addio di Ofelia prima di suicidarsi, donna simbolo dell’amore deluso.

Nella terza parte The fire sermon, il sermone del fuoco Eliot introduce la visione di Tiresia. Lo fa con questo breve quadro di vita quotidiana: racconta l’incontro tra una dattilografa e un impiegato nell’appartamento della ragazza in una grande città moderna (forse Londra) dove i rapporti umani sono rarefatti, ridotti all’inedia, non autentici, alienati. Così la relazione dei due giovani si specchia in questo brodo subliminale filtrato dallo sguardo dell’antico Tiresia. Di questa figura vorrei parlare di seguito.

In “morte per acqua” la quarta parte (o canto) è la più breve. In questa parte Eliot inserisce versi, come fa in altre situazioni, i cui argomenti si discostano completamente dall’architettura del poema sia dal punto di vista appunto dei contenuti che da quello formale.  Eliot ricorda qui la storia di un marinaio fenicio Phebas morto nella battaglia navale di Milazzo combattuta nel 260 a.C. tra romani e cartaginesi. Phebas era tra le forze dei romani. Inabissatosi, trasforma il suo sacrificio in un dono: diventa ora il simbolo dell’antico dio della vegetazione (Adone, Attis o Osiride) seppellito (ma in questo caso affogato) per poter permettere alla natura di rinascere.

“Ciò che disse il tuono è l’ultima sezione che mescola molti riferimenti culturali.  Si apre con la visione di un deserto, quello in cui vive metaforicamente l’umanità, (contemporanea ad Eliot) in attesa di una pioggia che non arriva.  Un deserto le cui condizioni sono cause di morte. L’umanità sta dunque morendo e anche la speranza di un redentore come Cristo è lontana. I riferimenti vanno da Dante al Vangelo di Luca, al mito celtico e ai temi di un trattato indiano.

“Dopo la luce rossa delle torce su volto sudato
dopo il gelido silenzio dei giardini
dopo l’agonia in luoghi di pietra
il clamore e il pianto
la prigione, il palazzo e l’echeggiato schianto
del tuono primaverile su monti lontani
colui che era vivo adesso è morto
noi che eravamo vivi stiamo morendo…”

Questa parte, l’ultima, chiude il cerchio perché continua con la descrizione della desolazione della terra e dell’uomo fino ad una speranza, quella del canto del gallo che annuncia il mattino. Ci sarà secondo Eliot un nuovo giorno. Il tuono annuncerà l’emergere di una civiltà con i suoi valori: l’altruismo, la compassione, l’autocontrollo per rifondare il mondo.

The Waste Land, la terra desolata, venne pubblicata, come detto, nel 1922 in volume a New York. Tra il 1921 e 1922 venne pubblicata, nell’ottobre del 1921 sulla rivista The Criterion e successivamente sempre su un’altra rivista.
I 433 versi di questo poemetto appaiono su riviste e in volume quando Eliot ha 34 anni. Vive in quel momento in Europa. Dopo un primo soggiorno da studente per preparare la tesi, vi ritorna dopo quattro anni e nel 1914 dunque continua a studiare alla Sorbona, frequenta le lezioni di Bergson, stringe amicizia con Alain Fournier che gli fa conoscere Gide, Claudel, Reviere, lo introduce alla prosa di  Julien Benda, Claude Maurras e Flaubert. Si reca anche in Germania a Marburg per approfondire la filosofia di Husserl (si era laureato nel suo paese di nascita, gli Stati Uniti d’America, con una tesi sulla filosofia di Bradley). A Londra conosce Ezra Pound che eserciterà una influenza determinante sul primo Eliot. A questa amicizia, come abbiamo accennato, si deve il lavoro comune che Eliot e Pound fecero: il primo componendo i versi de La terra desolata, il secondo tagliandoli inesorabilmente, mischiandoli e qualche volta stravolgendoli con la potenza della sua visione poetica e con l’esperienza. Forse grazie a Pound che la Terra desolata è diventata il punto di riferimento di molte esperienze letterarie perché influenzando il suo amico è riuscito ad aprirne l’animo e a farne scaturire quello che questo poemetto è. È tramite Pound che Eliot scopre la poesia provenzale, il dolce stil novo e rilegge Dante con un altro sguardo. Eliot si dedicherà all’insegnamento. Lascerà per otto anni la scuola e lavorerà come impiegato della Llyods Bank . Sono questi gli anni in cui si fa intenso il suo cammino verso la conversione e lo studio di autori come Maritain.

Si dedica poi alla scrittura per il teatro, scrive saggi sulla cultura e la civiltà occidentale, nel 1948 riceve il Premio Nobel per la letteratura. Muore a Londra il 4 gennaio 1965.
Eliot tornerà alla poesia con i Quattro quartetti che lo impegnano dal 1936 al 1942 dopo un lungo cammino spirituale di conversione.

Nei Quattro quartetti,venti anni dopo la Terra desolata  si fa però più esplicito il tentativo  di un bilancio della propria epoca. La fine della Grande guerra, la dissoluzione dell’impero austro-ungarico, i milioni di morti a causa della guerra e per la successiva pandemia della cosiddetta spagnola, danno nella terra desolata un significato residuale alla vita come pure a tutto quello che aveva contato prima di questi avvenimenti in termini di cultura, economia, politica, istituzioni. Ora nei Quattro quartetti tutto si svolge nei termini di una espiazione alla luce della speranza cristiana. Ma allo stesso tempo si avvia a compimento quel bilancio che il poeta fa attraverso un continuo coinvolgimento, nei suoi versi dei principi della società, dell’arte, della cultura, delle relazioni e delle loro trasmissioni temporali e interazioni.

Tra la stesura de La Terra desolata e dei Quattro quartetti la sua attività di drammaturgo produce altrettanti capolavori, Prende l’avvio con “L’assassinio nella cattedrale” per proseguire con “Riunione di famiglia (The family reunion, 1939), “Cocktail party”, 1948 “L’impiegato di fiducia” (The Confidential Clerk , 1955),” Lo statista a riposo “ (The elder Statesmann 1959). Il teatro rappresenta per Eliot, come egli stesso dice ne “L’uso della poesia e della critica” (The Use of  Poetry and  the Use of Criticism) del 1933: “il medium ideale  e la più diretta espressione  della utilità della poesia.”

Poesia sempre più tesa all’umiliazione dell’Io e alla ricerca di una illuminazione: “Ogni poesia è un epitaffio, ogni atto un passo verso la morte”. Una poesia che offre una visione pessimistica della realtà attraverso la narrazione di una terra in condizioni drammatiche per la caduta di ogni valore, senza alternative. La poesia non può fare altro che annotare lo stato dell’umanità. Con una specie di inedia, di impotenza com’è quella, per esempio, della poesia di Montale nei confronti della realtà. Nei versi de La Terra desolata nasce sul piano formale della poesia l’incontro tra “emozione e riflessione” che equivale al cosiddetto “correlativo”, oggetto che appunto Montale tanto apprezzò. Trasformando ogni emozione in immagini poetiche valide per tutti. Nei versi de La terra desolata si sente l’esperienza simbolista, (antirealistica, con riferimento ad un modello astratto di compostezza classica e l'imitazione di modelli antichi.  Baudelaire ne fece esperienza influenzando l'opera di Paul Verlaine, Julien Leclercq, Arthur Rimbaud e Stéphane Mallarmé), della morale dei poeti elisabettiani, (a partire da Edmund Spenser, Mary Wroth e Philip Sidney: tre poeti che rappresentano la poesia e il mondo elisabettiano, tra ispirazioni canoniche e non), dei metafici del Seicento. Eliot fu tra coloro che rivalutarono l’opera dei poeti metafisici del ‘600, ponendo un nuovo significato. Nel suo importante saggio dedicato ai poeti metafisici inglesi ha creato una corona di “involontari classici a lui congeniali” (parole di Montale), antenati illustri, tra i quali c’era anche Dante. 

Montale scrive in più occasioni di lui: “Nella sua poesia si trova senza dubbio la forte impronta del simbolismo francese e vi è quel modo tutto anglosassone di guardare al nostro stil novo, comune a Pound, e che esaurisce spesso nell’intarsio, nel gioco di un simbolo allusivo dell’eccitazione e dei richiami. Non ultima, anzi preponderante, si avverte la scoperta della grande poesia metafisica inglese ma a tutte queste componenti si aggiunge un suo particolare strong rhythm, il senso di una musica personalissima che fa vibrare dal sottosuolo del lessico più comune tutte le possibili armoniche. In Eliot c’è un senso della musica, molto particolare e decisivo, per la riuscita della sua poesia”. Più di ogni altro si sente la Divina Commedia di Dante a cui Eliot dedica nei suoi studi critici una monografia. Alla religione cristiana Eliot affida un compito importante attribuendo alla fede una capacità di condurre a dimensioni mistiche come l’eternità sulla quale dice: “afferrare il punto di intersezione tra l’eterno e il tempo e occupazione da santo”.

Indubbiamente i versi de La terra desolata sono il risultato dell’incontro di due poeti Eliot e Pound che Eliot stesso definisce “il miglior fabbro” perché sarà Pound con la sua autorità, la sua esperienza e la sua influenza a fargli conoscere modelli e stili letterari ma anche  a indurlo a rimodellare continuamente  con tagli, correzioni, aggiunte e sottrazione i versi che nascono dalla sua ispirazione e che saranno poi il poema La terra desolata.
Così quei versi, alla luce del rapporto tra Eliot e Pound, diventano la semplice, rapsodica narrazione dell’umanità. Voci, molte voci che fanno dei versi della terra desolata un “mainstream” che va assorbito dal lettore, che accarezza il cuore e la memoria, versi che si rifiutano di essere interpretati, spiegati. Stanno l ì a segnare il passo delle generazioni successive al fine di preservare la più genuina natura dell’uomo che è in definitiva, la natura di un animale rituale.
La Terra desolata grazie alla cultura di Eliot manipola e sconvolge i contenuti antichi secondo il metodo mitico e sul piano letterario, si offre come un mosaico ad intarsio di frammenti di altri testi. Una specie di prestiti e restituzioni che si realizzano con l’accavallarsi di simboli che si trasformano dentro una sintassi spezzata, frammentata dando così l’impressione di essere un’opera senza unità, senza un senso. Un moderno “copia e incolla”, un gioco da Facebook. Ma quello che potrebbe sembrare una stranezza ha un suo profondo significato perché è questo il modo di riflettere la caduta dell’uomo. Un uomo la cui cultura, storia, religione, i cui miti e le cui opere vien fatta a pezzi nella caduta come se fosse fatto di coccio. Da quella creta di nuovo impastata attraverso la purificazione religiosa nascerà per Eliot un uomo nuovo.




Eremo Rocca S. Stefano lunedì 6 aprile 2020                      

  Valter Marcone





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