martedì 28 gennaio 2020

Il circolo letterario: Arthur Rimbaud


Il veggente per antonomasia: Arthur Rimbaud



Chissà quante volte il lettore avrà letto qualcosa, o sentito pronunciare il nome di Arthur Rimbaud, celebre poeta francese nato a metà dell’Ottocento. 





Non abbiamo avuto il tempo di fare interviste e indagini in merito, ma certo è che su di lui si sono versati non fiumi, ma una quantità biblica di gocce d’inchiostro.
Il nome di questo celebre e immortale ‘poeta maledetto’ è spesso associato ai nomi di altri autori, più o meno appartenenti allo stesso periodo storico: parliamo di Verlaine e Baudelaire.
Del tormentato e rivoluzionario poeta, molte persone avranno sentito parlare o letto dell’opera più famosa, ‘Una stagione all’inferno’, che esprime tutto il genio e la sregolatezza propri del nativo di Charleville, nelle Ardenne, una regione che doveva essere in seguito ricordata per fatti bellici importanti.
Perché non tutti sanno della fatica del giovane Rimbaud a stare dietro alla storia e alle lingue morte, nel periodo degli studi giovanili. E nonostante questo, da lì iniziò la sua fortuna. Molto spesso non si riesce a comprendere l’opera di un autore, se non collocato nel periodo in cui visse.
Arthur Rimbaud era nato nel 1854 e nel periodo della sua presenza al collegio vide la città di Parigi sotto l’assedio prussiano, la caduta di Napoleone III e la breve esperienza della Comune.
Non sappiamo se questo abbia inciso sulla già ‘perversa’ personalità di Rimbaud. Certo è che già al collegio conobbe un personaggio che rimase un caposaldo importante nella sua formazione; parliamo di Georges Izambard, al quale scrisse in una lettera del 1871 le famose parole: ‘…voglio essere poeta e lavoro a rendermi Veggente… si tratta di arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi’.
E la sregolatezza si riflettè nella sua vita (basti ricordare la sua torbida relazione con Paul Verlaine, che toccò l’apice con il ferimento di Rimbaud durante un alterco), così come nelle opere, dove scardinò per sempre la metrica classica, liberandola dagli schemi che ritenne ormai superati.
Fu proprio Verlaine in seguito a chiamarlo ‘poeta maledetto’ e da lì la fama venne confermata da altri autori. In lui si intravedeva l’essenza visionaria di un altro grande della letteratura, parliamo di Rabelais, e la seduzione di Baudelaire, che era certamente più composto.
Izambard non fu l’unico a cui scrisse; lo fece anche a Paul Demeny, al quale scrisse la celebre frase, passata alla storia: ‘Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente…Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco…’. Il riferimento alla storia mitologica di Prometeo, che rubò il fuoco agli Dèi per donarlo agli uomini, gli consentì di esprimere l’essenza dell’essere un Poeta: colui che rubava il fuoco della ispirazione divina, fissandolo nei versi immortali
Rimbaud viaggiò molto, in linea con la sua anima tormentata, e passò molti guai, oltre alla vicenda del ferimento sopracitato. Venne arrestato anche per vagabondaggio e nella seconda parte della sua vita intraprese un viaggio in Africa. Fu in questo periodo che gli vennero pubblicate ‘Les Illuminations’, altro caposaldo della letteratura e della poetica dell’autore.
Ma in Africa, iniziò ad avere dei problemi a un ginocchio che lo costrinsero a tornare in Francia. E qui iniziò un calvario che dovette condurlo alla morte, che lo portò via a soli trentasette anni.
Come tanti autori, geniali e dannati, Rimbaud si colloca nell’Olimpo della letteratura, dando ispirazione a generazioni future di poeti, o aspiranti tali. E a noi fa piacere ricordarlo per la sua rivoluzionaria visione della Poesia.




venerdì 24 gennaio 2020

Elogio del lavoro: recensione de LA CHIAVE A STELLA di Primo Levi

Elogio del lavoro: recensione de LA CHIAVE A STELLA di Primo Levi 

A cura di Selene Luise





Cruccio maggiore di ogni specie vivente, sin dai primordi, è procacciarsi il nutrimento necessario per vivere.  Ciò vale anche e soprattutto per il genere umano.  Prima con la caccia e la raccolta, poi con il baratto, finché non venne inventata una comune merce di scambio, chiamata denaro, per procurarsi la quale occorre lavorare.  Che il lettore non si offenda di questa premessa un po’marxista, ma necessaria per introdurre il libro oggetto di questa recensione, LA CHIAVE A STELLA, il cui protagonista è, appunto, il lavoro. 

Considerata dall’autore la sua “opera prima”, poiché scritta nel momento della sua vita in cui, lasciato il mestiere di chimico, si dedicò completamente alla scrittura, racconta di un dialogo tra l’autore e l’operaio specializzato Faussone, che gira il mondo montando gru e ponteggi con la sua inseparabile chiave a stella. Questa storia è stata da molti definita “un’odissea moderna”, e in un certo senso lo è, ma io la vedo in un altro modo. 

Dai racconti di Faussone, il cui stile si avvicina al complicatissimo flusso di coscienza, e di conseguenza richiedono al lettore uno sforzo in più poterli seguire,  talmente dettagliati nelle descrizioni da apparire talvolta noiosi per chi di cantieri ne sa poco o nulla, emerge una passione, un amore sconfinato per la professione da lui svolta che può lasciare di stucco il lettore odierno, specie se giovane. Un amore che, per bocca di Faussone stesso, viene esteso a mestieri di ogni genere, pratici ed intellettuali, creando un vero e proprio elogio del lavoro.  

Del lavoro inteso come l’atto di guadagnarsi da vivere svolgendo una professione che piace, innanzitutto, e che porta vantaggi a se stessi e alla comunità. Un messaggio importantissimo all’epoca e che adesso si è, purtroppo, dimenticato. Nel mondo di oggi, così frenetico, votato al culto dei beni materiali, del consumismo, traspare un messaggio completamente sbagliato, a mio parere. Il messaggio che la vita sia un continuo sperpero, un monotono passare da un aggeggio tecnologico e l’altro, dove viene premiata l’arte del “fregare l’altro” e, cosa ancora più grave, che la vera vita sia quella dei ricchi che passano le giornate a far niente mentre lavorare è considerato quasi un disonore, una schiavitù che non porta a nulla. Tant'è che in alcune zone del paese, i ragazzini, anziché pensare a costruirsi un futuro, si buttano nel nero mare della criminalità organizzata, attratti dalla prospettiva di  avere tutto e subito.  

Questo libro ci insegna che il lavoro è dignità,  realizzazione, è fare il bene per se stessi e per gli altri. Faussone lo spiega chiaramente raccontando la soddisfazione che prova quando vede una sua costruzione crescere e reggersi in piedi. A volte arriva persino ad affezionarcisi. Discorso, questo, che vale per lo scrittore, per il chimico, il medico, il giurista e tutti i mestieri del mondo. Un messaggio fortissimo detto da Primo Levi che, in lager, aveva sperimentato sulla sua pelle il lavoro-schiavitù, la fatica senza compenso che umilia e degrada chi la svolge.  

Qualcuno ha detto che un libro che tratta una tematica del genere non sarebbe di moda al giorno d’oggi. Ebbene io penso che ora più che mai si abbia bisogno di libri come questo, che insegnino l’importanza  di porsi uno scopo nella vita, a scegliere la professione seguendo le proprie inclinazioni, per quanto possa essere difficile dati i tempi che corrono, che ci ricordi che il lavoro è un diritto che porta dignità e autorealizzazione, non un disonore. Un libro attualissimo che può essere una  guida in  un mondo caotico e pazzo che fa delle persone delle res.




venerdì 17 gennaio 2020

Il bianco occhio meccanico: recensione di LITHIUM 48 di Fabio Iuliano


Il bianco occhio meccanico: recensione di LITHIUM 48 di Fabio Iuliano (Aurora Edizioni)




Tutti hanno dei crucci con cui fare i conti, nel corso della vita. Anche io ne ho uno che mi porto dietro dall’infanzia: quello di non riuscire a capire il mondo. 

Ho sempre avuto la sensazione che questo pazzo mondo in cui viviamo, che negli ultimi anni ha aumentato sempre di più la velocità dei suoi ingranaggi, parlasse un linguaggio a me sconosciuto che, per qualche misterioso motivo, tutti sembravano comprendere, tranne me. 

Ho cercato la soluzione ai suoi enigmi nei miei studi, nelle mie letture e, da ultimo, nei miei scritti. E le ho trovate. Ne ho appreso i meccanismi come quando si impara ad usare un computer nuovo, o a guidare una macchina. Tuttavia il senso di smarrimento non è mai sparito del tutto. 
Lo stesso smarrimento che ho visto in Simone, il protagonista del libro che mi accingo a recensire. Simone è un giovane musicista e blogger che, per lavoro, si trasferisce a Parigi ed è convinto di essere inseguito dalle telecamere. Il suo turbamento arriva a tal punto da condurlo a essere rinchiuso in una stanza completamente bianca, in un posto che di bianco ha persino il nome. Un bianco accecante, fatto per annientare i sensi.

Assordante nonostante il fatto che sia un colore anziché un suono. È il più subdolo dei colori, il bianco, perché si presta alle più contraddittorie interpretazioni. Se da un lato può rappresentare la purezza, dall'altro può anche voler dire smarrimento, ansia. Qualcuno ha detto che potrebbe essere il colore del nulla. Un non-colore, anche se, fisicamente parlando, li racchiude tutti. In esso potrebbe facilmente nascondersi un occhio, anzi mille occhi, che ogni minuto vedono tutto ciò che facciamo (“il Grande Fratello ti guarda”). 

E qui torniamo all’ossessione del protagonista. Ma è un delirio del tutto infondato? Il mondo di oggi ha creato il web e i social network per accorciare le distanze e facilitare la comunicazione tra gli esseri umani. Nel corso di pochi anni, la tecnologia ha avuto uno sviluppo senza precedenti, e che cosa ci sta portando? A mio parere, risultati non buoni. Oggigiorno siamo sempre più connessi, ma siamo sempre più soli. 

social network ci fanno sapere tutto di tutti, ma ci fanno perdere il
contatto con noi stessi, con il nostro io più profondo. I nostri dati volano ovunque e fermarli è complicato quanto tentare di afferrare il fumo. Il mondo è una macchina impazzita che fagocita l’umanità e tutto ciò che ci rende qualcosa di più di un animale che cammina e respira per trasformare i suoi stessi creatori in macchinette. Il peggio è che nessuno sembra accorgersene e chi lo comprende come deve sentirsi se non smarrito di fronte a tutto questo? 

Cosa deve fare per non rimanere incastrato nei suoi ingranaggi, come in “Tempi moderni”? C’è una speranza di sfuggire a questa disumanizzazione? Io credo di si, e si trova nelle arti e in libri come questo. L’autore è riuscito a concentrare in poche pagine un thriller psicologico-distopico in maniera magistrale. Durante la lettura si ha l’impressione che George Orwell e Ray Bradbury abbiano guidato la mano dell’autore, creando una magnifica trama in cui le tematiche del progresso impazzito, dello smarrimento dell’individuo di fronte alla società globalizzata, della malattia mentale si intrecciano in un puzzle perfetto, dove ogni argomento ha il suo posto e niente è lasciato al caso. 

La suspense, poi, che non deve mai mancare in thriller degno di questo nome, è perfetta. Inchioda il lettore fino all’ultima pagina. Questo libro è un’ottima chiave per capire il mondo di oggi, come esso si sta evolvendo e come ci stiamo evolvendo noi. Il volume ridotto lo rende adatto anche ai neofiti della lettura. Un libro da leggere e rileggere più volte, che ha già il suo posto nel firmamento del romanzo psicologico.

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lunedì 13 gennaio 2020

L'approfondimento poetico: la poesia dialettale come disseppellimento strumentale e ontologico

L'APPROFONDIMENTO POETICO DEL MESE

La poesia dialettale come disseppellimento strumentale e ontologico

di Alessandra Prospero






Nell’epoca della globalizzazione, in cui internet regna sovrano, dove le comunicazioni avvengono attraverso congegni elettronici che, da una parte sono il frutto di un progresso inevitabile, ma dall'altra ci tolgono il piacere di comunicare guardandoci negli occhi, parlare del dialetto può sembrare anacronistico. Non è così: il dialetto fa parte del bagaglio culturale che ognuno di noi porta sulle spalle ed è l’inevitabile segno (in greco sema = segno e significato) che ci fa dire che apparteniamo ad un certo luogo, ad un certo tempo e che ci identifica e ci colloca nel posto preciso della nostra storia personale.


Il dialetto rappresenta la nostra etichetta, le nostre radici, la nostra carta d’identità. Il dialetto inteso come lingua è il mezzo che identifica tutto: i soprannomi, i rioni, le località. Ad un tempo in cui la neo-omologata lingua unitaria italiana era vissuta come un’imposizione, e si cercava dissidenza e resistenza nel dialetto, si è sostituita un’epoca in cui si vuole soffocare sotto un cuscino di piume anglofone la nostra bella e complessa lingua (diramazioni vernacolari comprese), conquistata e amata a fatica, come poc'anzi espresso, a tutto vantaggio di formule inglesi che infarciscono ogni contesto, da quello politico a quello lavorativo o scolastico. Un malcostume che sa di pochezza sociale e di inadeguatezza culturale.


Il filosofo Wittgenstein aveva ben intuito che ogni lingua è un sistema di pensiero a sé, con le sue mille sfumature; esse a volte sono meravigliosamente intraducibili poiché o non vi è un termine corrispettivo o le intraducibilità sono melodie onomatopeiche. Un mirabile e manifesto esempio di ciò è il celeberrimo scrittore siciliano Andrea Camilleri che nelle intonazioni e nelle espressioni in vernacolo svela quasi degli archetipi della cultura e della vita meridionale. In Italia non c’è lingua senza dialetti, già lo sosteneva anticipando la linguistica moderna Dante Alighieri, perché essi sono la lingua degli affetti, delle “cose” che appartengono ad una terra e non ad un’altra, che legano le generazioni tanto quanto il sangue.


Il dialetto dà nuova forma alle parole, riesce a rendere l’idea prima ancora di ridurla in termini precisi, a volte armonizza e a volte indurisce. Il dialetto è l’espressione di un popolo, è come un abito fatto su misura, è come una spugna che assorbe fatti, episodi, luoghi, persone e che restituisce fatti, episodi, luoghi, persone con profilo e identità precisi ma soprattutto con un’anima. Vivo in quella che il linguista Bruno Migliorini ebbe a definire “Italia mediana”, comprensiva delle quattro regioni centrali di Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio peraltro neanche per tutta la loro estensione. Infatti l’Italia centrale è un coacervo di molteplici aree dialettali spesso non assimilabili fra loro, anche in territori circoscritti, e l’Italia “mediana” è l’unica macrozona dotata di omogeneità linguistica.


Un felice e raro esempio di superamento delle individualità vernacolari municipali che comunque avevano il duplice effetto di frammentare la fenomenologia e la fonetica all’interno di una stessa area geografica e di pertinenza socio-culturale ma nel contempo di mantenere in maniera archetipica le proprie peculiarità a vessillo di un’identità che, con l’avvento dei media prima e la loro sempre più massiccia e convulsa comunicazione poi, tende a scomparire progressivamente.


L’idioma dunque inteso come strumento e identità, come lo intendeva Giovanni Pascoli che, nella sua anomia linguistica, diveniva precursore della sovversione delle castranti tendenze all’omologazione tematica e stilistica della tradizione poetica italiana in nome di un disseppellimento funzionale e ontologico delle proprie radici. Lo stesso titolo della raccolta “Myricae” si proponeva di trattare argomenti umili, cose piccole, quotidiane, del mondo circostante, in risposta ai versi della IV egloga delle Bucoliche di Virgilio che invitava le “Sicelides Musae” a innalzare a ben alto registro il canto poiché non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici, “non omnis arbusta iuvant, humilesque myricae.”


Dallo stesso spirito di “disseppellimento funzionale e ontologico” era animato Pier Paolo Pasolini che fu per tutta la vita un amante e un critico della poesia dialettale e che fondò l’Academiuta di lenga furlana, una sorta di salotto letterario nelle cui riunioni della domenica pomeriggio, si rivendicava, a mo’ di laboratorio linguistico, l’autonomia della lingua friulana. Nel recupero e nella trasmissione della stessa vi era un ritorno al primordiale, all’incontaminato, alla manifestazione espressiva più aderente all’essenza, sempre secondo Pier Paolo Pasolini il quale ritroviamo come Philodemon, nella raccolta “Carta laniena” del maggior poeta vernacolare delle Marche, Franco Scataglini, in una citazione che diviene legame e simbolo:


Philodemon
La sepia dalfinata!
strise l’omo da prua
e livida spezata
cosa sgrondò la sua

anima d’acqua inchiostro
(i tondi da Gorgona
ochi de sepia).

A ostro
ributata.
Abandona

così preda el dalfì,
dopo adentata, al mare
su l’indolente sì-
sì d’antimano (o fiare
meridiane!...).
  







lunedì 6 gennaio 2020

Carlo il favoloso, Trilussa visto da Federico Del Monaco


Carlo il favoloso

di Federico Del Monaco





  LA VITA

Trilussa è lo pseudonimo anagrammatico con cui è divenuto celebre il poeta romanesco Carlo Alberto Salustri. È il terzo grande poeta romano comparso dall’ottocento in poi, dopo Belli e Pascarella.
Nasce a Roma il 26 ottobre 1871.
Orfano del padre a soli tre anni, ha un’infanzia poverissima e compie studi irregolari.
Esordisce giovanissimo nel 1887, componendo alcune poesie per il Rugantino di Luigi Zanazzo.
Intorno al 1890 pubblica sonetti sul Don Chisciotte diretto da Luigi Lodi, su Il Capitan Fracassa, sul Messaggero, del quale poi fu a lungo collaboratore, e su “Il travaso delle idee”.
Tra il 1913 e il 1920 andò ad abitare a Campo Marzio…
…ma no!
Non si può cominciare a raccontare la storia di questo poeta di statura così.
Anzi, forse da “statura” è possibile.
Trilussa era 2 metri, la sua altezza era definita leggendaria: baffi lunghi alla moda, un po’ all’insù, capelli ricci e scuri. Occhi tondi spesso divertiti, sempre attenti.
Vestiva di bianco, come Mark Twain, fazzoletto sulla giacca a tradire qualche piccola vanità, come l’abitudine di togliersi gli anni, tanto affinata che l’enciclopedia nazionale, per molto tempo, dichiarò il suo anno di nascita nel 1873, anziché nel ’71. Si parlò di una delle sue tante burle ben riuscite.
Preferiva le osterie ai circoli di poeti, la gente verace lo ispirava e parlò di quello che amava e di quello che non amava, mai sprecando parole per grigiume e depressione.
Odiava gli ipocriti, quelli che se ne approfittano, compativa i malvagi invecchiati e ha scritto sempre in odor di verità.
Non fu mai ricco, qualche volta in bolletta.
Sfiorò gli ottant’anni e fu tutto sommato felice, per essere un vero poeta.
Sul finire del suo viaggio fu nominato senatore a vita, troppo tardi affinché potesse godere, almeno economicamente, di un surplus meritato. Morì di fatto una ventina di giorni dopo la nomina. Aveva commentato il tardivo riconoscimento con una delle sue solite imbeccate: “mi hanno fatto Senatore a morte.


IL PENSIERO FEMMINILE
È con la favola e i personaggi simbolici che Trilussa trova la sua dimensione ideale.
Scriveva quello che pensava e viveva, con il nobile senso di giustizia di chi prende una posizione liberamente e senza tornaconto. Notevole è “L’Acqua, er Foco e l’Onore”, scritta cento anni fa, che tratta il tema, per noi attualissimo, del femminicidio domestico, con pungente originalità.

L'Acqua, er Foco e l'Onore

L'Acqua, er Foco e l'Onore
fecero er patto d'esse sempre amichi,
vicini ne la gioja e ner dolore
come s'usava ne li tempi antichi.
— Io ce sto: — disse l'Acqua — ma che famo
se quarchiduno de noi tre se perde?
Ce vonno li segnali de richiamo.
A me, me troverete ne li prati
pieni de verde e in più d'un'osteria
che vende er «vero vino de Frascati ».
— Correte dove vanno li pompieri.
— je disse er Foco — Quella è casa mia. —
L'Onore chiese: — E a me chi m'aripija?
In società ce capito de rado;
pe' li caffè, lo stesso. Ormai nun vado
nemmanco ne le feste de famija.
È passata quell'epoca! D'altronne
me so' invecchiato e poco più m'impiccio
d'affari, de politica e de donne.
Ho inteso a di' che spesso
li mariti d'adesso
ammazzeno la moje a nome mio;
nun ve fate confonne: nun so' io!
E state attent'a quelli
che fanno li duelli...
— Oh! sai che nova c'è? — je disse er Foco —
Ner caso che te perdi, fa' un segnale:
se poi nun te trovamo è tale e quale,
ché in fin de conti servi a tanto poco!




 L’EVOLUZIONE

Dai primi lavori popolari ha innalzato il suo intento. Se è vero che ha scritto sempre all’ombra di un campanile, pur sempre quello di Roma, il suo linguaggio italianizzato ha permesso a tutti di comprendere le sue rime. Gli animali come metafora, se recitano la parte degli uomini sono pieni di difetti, presi per quello che sono evidenziano innocenza e purezza. Chiappini, il mentore letterario di Carlo, fu allievo di Gioacchino Belli, il grande vate romanesco e insegnò al nostro i dettami della composizione poetica. L’allievo però tradì il maestro, affogando di italiano le sue metriche capitoline. Lo spirito romano ne risulta, a nostro umile giudizio, rafforzato e modernizzato. Non piacque ai puristi ma tutta l’Italia ebbe licenza di risata. Fate voi i conti.
In seguito fu invitato dall’élite romana Arcadia, un gruppo illuminato di poeti che fecero pensiero attraverso Accademia, vi entrò con lo pseudonimo di Tibrindo Plateo, lo stesso che usò il Belli. La storia parlerà di due giganti dissimili ma noi siamo un po’ romantici, ci piace affermare candidamente una possibile continuità tra Gioacchino Belli e Trilussa.
Per Trilussa tutto può divenire metafora, perfino la religione. Oggi è facile esser contro e criticoni, ai tempi del nostro Carlo la situazione era differente.
Il signor Salustri era determinato e vanitoso: due qualità che possono aiutare coraggio e amor proprio. Se qualcuno vestiva meglio di lui, si diceva, ci rimaneva male. Aveva l’abitudine di togliersi qualche anno ma aveva una buona parola per tutti, apparendo simpatico senza essere egocentrico.
Dalle rime spesso scappa via un commento sui suoi colleghi di scrittura, tali o presunti tali. Il clero era la vittima del Belli? Per Trilussa il gioco è a ribasso, abbassa i toni e trasforma il tutto in terreno, affinché si possa parlar di uomini, soggetti al difetto e quindi alla critica.
Trilussa, amante della vita romana, non esitava a fare tardi. Eppure si può definire un poeta del mattino. I suoi scritti sono pressoché solari, anche quando sono drammatici. La sua prima raccolta si chiama “Le stelle di Roma” dove la bellezza è il fulcro dei componimenti. Scriverà molto su amori e donne senza tralasciare satira politica e riflessioni sulla disparità sociale.
Prima di Totò è “Li burattini” che livella il genere umano dopo la morte e non risparmia neanche il Re.
Sopravvivendo a due guerre mondiali lascerà scritti di dolore.
Ma Trilussa è anche il poeta delle osterie, delle rime comiche dal gran finale.



 A MIO GUSTO

Personalmente prediligo il Carlo, intimista e sognatore. La vita arriccia la pelle ma spiana i ricordi e i sentimenti. Questa è la poesia che preferisco di questo favoloso poeta.



Sogni

Da un anno, ogni notte, m'insogno e me pare
d'annà in un castello
che guarda sur mare;
nun sogno che quello.
C'è Pietro, er portiere, ch'appena me vede
se leva er cappello, s'inchina e me chiede:
— Sta bene, Eccellenza? Sta bene, padrone? —
E tutto contento richiude er portone.
Qualunque portiere che v'apre la notte
ve manna a fa' fotte;
invece c'è Pietro che sente er bisogno
de dimme 'ste cose gentile e sincere
che solo da questo capisco ch'è un sogno.
Che bravo portiere!
Er mastro de casa, ch'è un vecchio mezzano,
m'insegna  una porta, me bacia la mano
eppoi sottovoce me dice: — È arrivata
la donna velata...
— Ma quale? — je chiedo — la pallida, forse,
che stava a le corse?
o quela biondina coll'abbito giallo
ch'ho vista in un ballo? —
È commodo e bello
d'avecce un castello
nascosto ner sonno,
ché armeno, la notte, ce faccio l'amore
co' tante signore
ch'er giorno nun vonno .
— Der resto lei stessa,
signora duchessa,
co' tutta la posa
superba e scontrosa,
m'accorgo che in sogno me tratta un po' mejo
de quanno sto svejo.
Nun solo me guarda, ma spesso me dice:
— So' propio contenta! So' propio felice! —
— Davero? — je chiedo — ma allora perché
nun resti co' me? —
E appena m'accorgo ch'ariva er momento
de dije sur serio l'amore che sento,
m'accosto, l'agguanto , la bacio... Ma allora
me strilla: — Sta' bono. No, no... Me vergogno!... —
E solo da questo capisco ch'è un sogno;
che brava signora!
Nun ciò che un amico, sincero e leale,
che dice le cose papale papale ,
che quanno ho bisogno de questo o de quello
s'investe  e m'aiuta, da vero fratello.
È a lui che confido le gioje e le pene
perché me capisce, perché me vô bene...
Infatti ogni notte lo vado cercanno
ner vecchio castello che sogno da un anno.


PER FINIRE

Per Carlo le tradizioni hanno un senso. Criticare è spingere alla riflessione. Durante il ventennio scriverà, non prenderà la tessera fascista ma dopo la guerra rifiuterà elogi per lui immeritati, degli affezionati dell’ultim’ora che salgono sul carro dei vincitori. Dirà di essere stato semplicemente non fascista: la sua coscienza equilibrata lo portò quindi a vedere tutto il male nascosto nel regime, con la libertà di un pensatore puro. Il relatore della sua opera omnia colloca questa poesia alla fine, forse per desiderio dello stesso Trilussa.

Felicità

C'è un'Ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va...
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.

La raccolta “Tutte le poesie” a cura di Pancrazi esce un anno dopo la morte di Trilussa. Nella prefazione, all’ultima riga, si può leggere “Trilussa ci manca…”
Per chi ha assistito alla sua partenza è stato certamente così, per noi che siamo venuti dopo, che lo abbiamo conosciuto già vincitore della morte, il pensiero è un sorriso di ammirazione e simpatia, d’un affetto tanto grande da sembrare assai raro, per questo ragazzone altissimo, con lo sguardo attento, i baffi alla moda, le maniere gentili ed un talento poetico unico ed ineguagliabile.
Ci perdoni, quindi, il Pancrazi, se a parer nostro, è “Favole…” la giusta chiusa per Carlo il favoloso, il poeta della favola, della realtà satirica, della denuncia elegante e interessata. 

FAVOLE…

Pe' conto mio la favola più corta
è quella che se chiama Gioventù:
perché... c'era una vorta...
e adesso nun c'è più.
E la più lunga? È quella de la Vita:
la sento raccontà da che sto ar monno,
e un giorno, forse, cascherò dar sonno
prima che sia finita...







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