DELITTO E CASTIGO: il romanzo
multicolore.
DELITTO E CASTIGO di Fedor Dostoevskij è il primo classico
che ho letto di mia spontanea volontà, nonché il romanzo che mi ha iniziata al
mondo dostoevskiano e ai classici in generale. La definizione che di solito ne
dà la critica è quella di “poliziesco”, “romanzo criminale”. A mio parere una
tale definizione è oltremodo riduttiva. In esso, nella sua trama, si
intrecciano molteplici tematiche come la libertà, il sentimento del giusto e
dell’ingiusto, del bene e del male, i modi umani di reagire al dolore, alla
sofferenza, l’espiazione delle proprie colpe e tantissimi altri. In questo
romanzo, ogni personaggio ha una sua autonomia, una sua personalità e dignità.
Sono indipendenti gli uni dagli altri. Ma il protagonista è uno solo:
Raskolnikov, un giovane studente. Il suo nome, si badi, non è casuale. Viene
dal termine raskolnik che significa
“scisma”, “rottura”. Raskolnikov, venuto a Pietroburgo dalla campagna per
frequentare l’università, a causa di gravi ristrettezze economiche è costretto
ad abbandonare gli studi e un bel giorno, per dimostrare a tutti, soprattutto a
se stesso, di essere un super-uomo, uccide una vecchia usuraia. Raskolnikov, nel
compiere il delitto, in un primo momento pensa anche di fare un favore
all’umanità, liberandola da un essere abietto come l’usuraia, ma col passare
del tempo la consapevolezza di aver commesso un grave crimine e il rimorso di
coscienza, alla fine, lo portano a costituirsi. Delitto, colpa ed espiazione.
Questi i tre cardini su cui si basa l’apparentemente semplice trama. Dico
apparentemente perché in essa si celano significati molto più profondi che
fanno capire come mai non solo è riduttivo, ma anche sbagliato, chiamarlo
“poliziesco”. Qui siamo di fronte ad una vero e proprio romanzo psicologico. La
vicenda del protagonista ci mostra che la libertà, se non frenata dai dovuti
limiti, si autonega. Raskolnikov è spesso considerato un anti-eroe. Ciò è vero
se lo confrontiamo con i protagonisti del resto della letteratura europea, ma
non se lo si analizza nella sua essenza. Io lo definirei l’eroe per eccellenza,
perché anche lui combatte contro i suoi nemici, che non sono tangibili ma
interiori (la sua colpa e la paura della punizione) e li sconfigge proprio
confessando il suo delitto e accettando il meritato castigo. Prima di giungere
a questo, però, Raskolnikov ci pone un importante interrogativo: “i più grandi
uomini della storia hanno fatto stragi
su stragi per arrivare dove sono arrivati, e i posteri li ricordano e li
celebrano quasi come dei. Perché io, che ho ucciso un pidocchio, devo andare ai
lavori forzati?” Una persona superficiale risponderebbe che quelle stragi erano
necessarie per il bene dell’umanità, ma noi semplici mortali siamo sicuri di
saper distinguere il bene dal male? Non vale forse per tutti il comandamento
“non uccidere”? Ciò vuol dire che l’umanità venera degli assassini ai quali, a
differenza di Raskolnikov, non viene imposto di pagare per le loro colpe e in
cui il potere ha messo a tacere la coscienza. È un quesito pesante come un
macigno, questo, che ci costringe a rivedere tutte le nostre convinzioni più
radicate, ma in questa sede sarebbe troppo lungo discuterne. Come ho detto
prima, accanto a Raskolnikov, ci sono altri personaggi che insieme a lui vivono
e agiscono. Tre i più importanti: i suoi opposti Marmeladov, Svidrjgajlov e la
protagonista femminile del romanzo: Sonja. Marmeladov è un povero disgraziato
con moglie e figli da sfamare, il cui impiego non gli permette di condurre
un’esistenza dignitosa, ma lui invece di reagire, passa la giornate ad
ubriacarsi; ma nonostante le botte della moglie e la consapevolezza della
propria situazione continua a vivere così. Lui rappresenta l’umanità sofferente
incapace di rimettersi in piedi, che passa il tempo a piangersi addosso e il
cui unico desiderio è essere compatita. Svidrjgajlov è un Raskolnikov al
negativo. Lui nella vita ha commesso una bassezza dietro l’altra e in ognuna di
esse trova un malsano piacere, il piacere di sprofondare sempre di più
nell’abisso dell’infamia. Egli rappresenta il masochismo, l’attrazione fatale
esercitata dal male sulla psiche umana. Il suo suicidio è l’altro risultato
dell’eccesiva libertà. Veniamo infine a Sonja, figlia di Marmeladov, la quale
per mantenere sé stessa e la famiglia è costretta a prostituirsi. Lei è esteriormente timida e insignificante, ma
dentro nasconde una grande forza d’animo. Nel corso della storia non la vediamo
mai lamentarsi della sua deplorevole situazione. Anzi sopporta la sua croce con
pazienza e dignità, confidando sempre in Cristo, tant’è che quando incontra
Raskolnikov e apprende da lui ciò che ha fatto, non solo non lo giudica, ma lo
ama. Lo ama perché vede in lui un’anima che soffre tormenti peggiori dei suoi. Sonja
considera sé stessa perduta per sempre, per lui vede che c’è una possibilità di
redenzione, ma solo se ammetterà la propria colpa e accetterà la sofferenza da
ciò derivante e la pena. È, infatti, proprio Sonja a convincere Raskolnikov a
costituirsi e lo segue fino in Siberia per stargli accanto durante la
reclusione. Raskolnikov all’inizio è infastidito da questo amore che Sonja
prova per lui, perché sente di non meritarlo e perché gli fa percepire ancora
di più la gravità della sua azione, ma alla fine lo accetta e vi si abbandona
completamente, in quanto capisce che questo lo aiuterà a redimersi e a
rigenerarsi ad una nuova vita al termine della pena. Ritroviamo qui il tema
dostoevskiano della sofferenza purificatrice e dei demoni presenti nella
società e nell’animo umano che, se guardiamo bene, è il vero protagonista del
romanzo. Un capolavoro di psicoanalisi alla stato puro con una manciata di
filosofia e romanticismo. Un arcobaleno di sentimenti che si intrecciano tra
loro. Per l’appunto una romanzo multicolore.
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