Il circolo letterario, John Keats
a cura di Eraldo Guadagnoli
a cura di Eraldo Guadagnoli
Il nome di John Keats è noto ai più per la breve vita che ha
vissuto. Nacque nel 1795 a Londra e appena fu possibile, il padre lo mandò a
studiare presso la scuola del reverendo Clarke, dove venne fuori il suo
carattere ribelle. In questo contesto, oltre a leggere tanto, iniziò la sua
fraterna amicizia col figlio del reverendo.
Poi, alcuni episodi modificarono la sua esistenza. Mel giro
di sei anni, Keats perse il padre per un incidente e la madre per tubercolosi.
E nel 1810 venne mandato a studiare e lavorare presso un farmacista. Ma vi
rimase poco, per dissapori con il proprietario.
Nel 1815, si iscrisse come studente di medicina presso il
Guy’s Hospital di Londra, e da qui inizia la sua carriera letteraria. Sempre
rimanendo in contatto con il suo amico Cowden Clarke, iniziò ad avvicinarsi
alle opere di Spenser, Tasso, Milton. Strinse amicizia con Leigh Hunt, grazie
al quale iniziò a pubblicare le sue prime poesie in riviste.
Un anno dopo, Keats decise di abbandonare l’ospedale,
assorbito completamente dall’amore per la poesia e per i versi. Tanto che nel
1817 pubblicò una raccolta di poesie. Da qui iniziò la frequentazione di
pittori, artisti e altri autori, tra cui Percy B. Shelley. Aveva un carattere e
una personalità così irresistibili, che gli fece avvicinare molte persone
affascinate dalla caratura che aveva, nonostante la giovane età.
Dopo la morte del fratello, nel 1818 pubblicò Poems e
poi il capolavoro Endymion, che rimane in assoluto la migliore opera del
poeta. Nonostante alcuni sintomi di salute cagionevole, continuò a scrivere e
trovò il tempo di avere una liaison con Fanny Brawnw, con cui però non convolò
a nozze. Decise così di trasferirsi in un luogo più caldo, e nel 1820 si
trasferì a Roma, dietro anche suggerimento dei medici, insieme all’amico Joseph
Severn.
Il viaggio venne funestato da una tempesta, e all’arrivo al
porto di Napoli, Keats venne messo in quarantena, per timore di una epidemia di
colera che si diceva fosse scoppiata in Inghilterra. Infatti, ci volle del
tempo prima che egli giungesse a Roma. Keats alloggiò al numero 26 di Piazza di
Spagna, dove oggi c’è tuttora la casa museo intitolata a lui e Shelley, proprio
a lato della scalinata di Trinità dei Monti. Nonostante le cure, Keats si
spense di tubercolosi il 23 febbraio del 1821, a soli venticinque anni.
Nonostante la brevità della sua esistenza, e una non immensa
produzione letteraria, di lui ci rimane una figura eccelsa del periodo
romantico inglese. Oltre alle poesie sopracitate, Keats scrisse una quantità enorme
di lettere ai suoi amici: e grazie a esse è stato possibile tracciare una
personalità viva, indomita, passionale.
Era impeccabile nel saper utilizzare i suoni, le immagini
concrete. Anche se lui stesso affermò di essere stato influenzato molto da Shakespeare,
la sua freschezza espressiva ne fa un poeta di prim’ordine, che è salito
nell’Olimpo della Letteratura e della Poesia per lo stile unico, che ha saputo
evocare oggetti e cose, grazie alla sensorialità, alle immagini vivide.
Nonostante la critica letteraria del suo tempo gli fu poco
favorevole, fu grazie a Percy Shelley prima e al grande Oscar Wilde, che oggi
abbiamo il privilegio di leggere i versi immortali di uno dei più vivi poeti
inglesi di sempre.
La Belle Dame Sans Merci
Perché soffri, o cavaliere in armi,
E pallido indugi e solo?
Sono avvizziti, qui i giunchi in riva al lago,
E nessun uccello cantando prende il volo.
Perché soffri, o cavaliere in armi,
E disfatto sembri e desolato?
Colmo è il granaio dello scoiattolo,
E il raccolto è già ammucchiato.
Scorgo un giglio sulla tua fronte,
Imperlata d'angoscia e dalla febbre inumidita;
E sulla tua guancia c'è come una rosa morente,
Anch'essa troppo in fretta sfiorita.
Per i prati vagando una donna
Ho incontrato, bella oltre ogni linguaggio,
Figlia d'una fata: i capelli aveva lunghi,
Il passo leggero, l'occhio selvaggio.
Una ghirlanda le preparai per la fronte,
Poi dei braccialetti, e profumato un cinto:
Lei mi guardò come se mi amasse,
E dolce emise un gemito indistinto.
Sul mio destriero al passo la posi,
E altro non vidi per quella giornata,
Ché lei dondolandosi cantava
Una dolce canzone incantata.
Mi trovò radici di dolce piacere,
E miele selvatico, e stille di manna;
Sicuramente nella sua lingua strana
Mi diceva, "Sii certo, il mio amore non t'inganna".
E mi portò alla sua grotta fatata,
Ove pianse tristemente sospirando;
Poi i selvaggi suoi occhi selvaggi le chiusi,
Entrambi doppiamente baciando.
Poi fu lei che cullandomi
M'addormentò - e, me sciagurato,
Sognai l'ultimo sogno
Sul fianco del colle ghiacciato.
Cerei re vidi, e principi e guerrieri,
Tutti eran pallidi di morte:
"La belle dame sans merci", mi dicevano,
"Ha ormai in pugno la tua sorte".
Vidi le loro labbra consunte nella sera
Aprirsi orribili in un grido disperato,
E freddo mi svegliai, ritrovandomi lì,
Sul fianco del colle ghiacciato.
Ed ecco dunque perché qui dimoro,
E pallido indugio e solo,
Anche se sono avvizziti i giunchi in riva al lago,
E nessun uccello canta, prendendo il volo.
La Belle Dame Sans Merci
Perché soffri, o cavaliere in armi,
E pallido indugi e solo?
Sono avvizziti, qui i giunchi in riva al lago,
E nessun uccello cantando prende il volo.
Perché soffri, o cavaliere in armi,
E disfatto sembri e desolato?
Colmo è il granaio dello scoiattolo,
E il raccolto è già ammucchiato.
Scorgo un giglio sulla tua fronte,
Imperlata d'angoscia e dalla febbre inumidita;
E sulla tua guancia c'è come una rosa morente,
Anch'essa troppo in fretta sfiorita.
Per i prati vagando una donna
Ho incontrato, bella oltre ogni linguaggio,
Figlia d'una fata: i capelli aveva lunghi,
Il passo leggero, l'occhio selvaggio.
Una ghirlanda le preparai per la fronte,
Poi dei braccialetti, e profumato un cinto:
Lei mi guardò come se mi amasse,
E dolce emise un gemito indistinto.
Sul mio destriero al passo la posi,
E altro non vidi per quella giornata,
Ché lei dondolandosi cantava
Una dolce canzone incantata.
Mi trovò radici di dolce piacere,
E miele selvatico, e stille di manna;
Sicuramente nella sua lingua strana
Mi diceva, "Sii certo, il mio amore non t'inganna".
E mi portò alla sua grotta fatata,
Ove pianse tristemente sospirando;
Poi i selvaggi suoi occhi selvaggi le chiusi,
Entrambi doppiamente baciando.
Poi fu lei che cullandomi
M'addormentò - e, me sciagurato,
Sognai l'ultimo sogno
Sul fianco del colle ghiacciato.
Cerei re vidi, e principi e guerrieri,
Tutti eran pallidi di morte:
"La belle dame sans merci", mi dicevano,
"Ha ormai in pugno la tua sorte".
Vidi le loro labbra consunte nella sera
Aprirsi orribili in un grido disperato,
E freddo mi svegliai, ritrovandomi lì,
Sul fianco del colle ghiacciato.
Ed ecco dunque perché qui dimoro,
E pallido indugio e solo,
Anche se sono avvizziti i giunchi in riva al lago,
E nessun uccello canta, prendendo il volo.
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