Montale e la libertà di uomo e di poeta
di Valter Marcone
“Nel nostro tempo” è un esile volumetto in prosa di Eugenio Montale, uscito
nel 1972 per Rizzoli. È un collage di pensieri, stralci di interviste e
interventi di Montale, raccolti dal filosofo e storico della filosofia Riccardo
Campa(1), con l’obiettivo di far conoscere il pensiero di Montale su alcuni
temi capace di resistere, appunto, al suo tempo e al nostro, in ogni presente. È
un modo di indicare alcune strade in questo nostro presente che avvalendosi delle
idee del poeta cercano di raccordare passato e futuro dentro un presente che a
volte appare traumatico.
Montale è riuscito a guardare in queste brevi riflessioni e
stralci di interviste, in almeno quattro direzioni diverse, che di fatto sono al
centro della contemporaneità, la nostra, quella dei nostri giorni: la
tecnologia, il lavoro, la massa e l’arte, intesa come destino di sé stessa. E
questi quattro temi riportano a un concetto più ampio. Quello della libertà,
dell’uomo libero come Montale stesso spiega nell’introduzione del libro. Le pagine “insistono soprattutto sulla
condizione dell’uomo libero, dell’uomo che vorrebbe essere libero, o crede di
volerlo, nel mondo e nell’età in cui siamo nati”. Quindi in definitiva una
riflessione sulla libertà e sulla sua difesa quando è minacciata,
sottovalutata, negata.
La tecnologia, il lavoro, la massa e
l’arte, rappresentano uno spazio tempo in cui Montale esprime un discorso quasi
incompiuto dovuto alla
immobilità interiore in quanto poeta e osservatore del tempo. Un discorso
incompiuto perché egli appare spaesato
insieme alla comunità che con lui condivide gli avvenimenti di ogni
giorno. La realtà è un circolo vizioso secondo una certa “ontologia negativa”
in quanto per costruire qualcosa bisogna avere degli strumenti, per avere gli
strumenti bisogna avere delle costruzioni. Da questo dilemma non si esce.
Perché questo è il dilemma dell’esistenza e dell’esistere.
“L'existere per vivere è una colpa,
perché è l'uscire dall'essere. Il reale non è, l'essere non può unirsi con
l'esistere, è un grande nulla, costretto ad esistere ma senza tutte le
possibilità dell'essere. L'essere è assoluto, ha la totalità, mentre l'esistere
è frantumato (se sono x, non sono y). L'essere è di tipo probabilistico e le
probabilità sono finite. Questa è la condanna del mondo, in quanto il reale
esiste, ma ha un arco di probabilità che non è infinito. Siamo nella necessità.
Siamo nel regno della casualità, ma una casualità finita, già prevista” (2)
«Non domandarci la formula che mondi possa aprirti», sembra
arrendersi Eugenio Montale nei versi riarsi di Ossi di seppia. Tutt’al più può
offrire «qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi
possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». È in questo gesto di
resa che abbiamo sempre visto il poeta, imprigionato in un fermo immagine
tragico e pessimista che ne fa il cantore del vivere impossibile. Invece per
essere veramente compreso Montale va “mobilizzato”, va letto comprendendo che
il senso acuto del disagio e la crisi dell’esistenza sono un percorso sempre in
movimento lungo tutta la sua vita e la sua produzione poetica.
“Gli oggetti di Montale sono fisici
e metafisici allo stesso tempo, sono scarnificati, diventano cifre, segni. La
poesia è il miracolo, è una via di salvezza che cerca l'anello tolto, ma è un'impresa
impossibile. Vi sono i simboli del muro, dell'orto, del mare. L'impossibilità è
l'anello che non tiene. I poeti per Montale non sono quelli laureati, quelli
che proponevano una soluzione formale. Montale vuole i contenuti, non il gioco
delle forme. Montale ha una poesia di oggetto. La poesia non è la libertà, ma
la speranza della libertà, è mettersi nella posizione che se non c'è il
miracolo non c'è niente. Il poeta è necessario perché ci dà l'idea di
un'esistenza bloccata, è l'unica attività libera. Se il poeta aspetta il
miracolo, non è certo la scienza che può risolverlo.” (3)
Ma il poeta è anche un disagiato. Montale in “Intervista con
se stesso” del 1951 descrive questo suo disagio “fin dalla nascita”, ho sentito
“una totale disarmonia con la realtà che mi circondava”. E continuando dice che
quindi “la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella
disarmonia”, quel suo “inadattamento psicologico e morale” tipico di “tutte le
nature poetiche”. In quell’intervista spiega così il fatto che, pur essendo
contrario al fascismo, l’argomento della sua poesia non sia mai stata la lotta
politica ma la condizione umana: “Come poeta il combattimento avveniva su un
altro fronte. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo,
significa solo volontà di non scambiare l’essenziale col transitorio”. A questa
fase appartengono i versi più noti e pessimisti, di “Non chiederci la parola”,
o “Meriggiare pallido e assorto”...
In questo senso diventa importante,
proprio in tema di libertà, l’'esperienza poetica delle Occasioni che consiste
nel fatto che solo l'occasione può essere poesia, perché in quel frammento è
possibile che le "lancette" non ci siano più. Se poesia è attesa, può
essere il cogliere l'attimo che gli altri non colgono. L'intellettuale registra
il fallimento, spia l'occasione del momento del miracolo, si accorge che è
fallita e se il poeta aspetta ancora, egli come intellettuale non può non
“declarare” la realtà così come essa è e non come appare.
Quindi nelle idee raccolte nel
libricino “nel nostro tempo” l’intellettuale appunto richiama l’attenzione tra i suoi contemporanei su un tema importante che è
quello della libertà . Una libertà che non tiene conto del disagio del poeta,
della mancanza di strumenti, della impossibilità di controllare causa ed effetto.
Ma si esprime ed esprime la realtà come miracolo. Montale nella cartolina che scrive a Piero Gadda Conti nel 1934, rivela
quali sono i suoi temi poetici e tra gli altri “l’evasione, la fuga dalla
catena ferrea della necessità”, addirittura “il miracolo, diciamo così, laico”,
che vede nella libertà (o meglio nella aspirazione alla libertà), la “maglia
rotta nella rete che ci stringe”. Insomma, la condanna alla disarmonia con
l’affermazione della libertà dell’uomo, trova un varco nel rompersi di questa
rete, e questo è il miracolo. Nella “Intervista immaginaria” del 1946 Montale
dichiara che già all’inizio della sua produzione poetica, all’epoca di Ossi di
seppia (1920-1925), “il miracolo era per me eviden-te”, già allora gli era
chiaro che “immanenza e trascendenza non sono separabili”».
Nella “Intervista immaginaria” appunto dice che scrivendo
Ossi di seppia sentiva di “essere vicino a qualcosa di essenziale”, al punto
che “un velo sottile, un filo appena mi separava dal quiddefinitivo”. Stiamo
sfiorando altezze vertiginose, se finalmente quel velo si fosse rotto sarebbe stata
la fine dell’inganno... Ma, conclude Montale, questo era un limite
irraggiungibile. La stessa vertigine metafisica la troviamo ancora più
esplicita in “Forse un mattino andando in un’aria di vetro”: quel giorno,
scrive il poeta, “vedrò compirsi il miracolo” e, anche se l’inganno consueto
cercherà di imprigionarlo, “sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto tra gli
uomini che non si voltano, col mio segreto”». Forse, ma questo è un altro
discorso, è un altro tipo di libertà, qui Montale vuole parlare della libertà
dalla vita. Una vera e totale libertà
alla quale non interessa la
necessità, la realtà. Ma solo il rapporto con qualcosa di immanente che non rappresenta
più un ostacolo alla espressione della vera libertà.
Nella introduzione al libro Montale scrive con perfetta sintonia: “Chi osserva con un
qualche distacco ciò che avviene intorno a noi dovrà ammettere che il mondo è
squassato da una violenta raffica di disperazione e di oscuro, inesplicabile
amore”. E più avanti continua: “Si direbbe che l’uomo sia scontento di sé,
incapace di dare un senso, un contenuto al fatto di essere al mondo”
Così Montale nel mettere l’accenno sul disagio il disagio
dell’uomo contemporaneo, di quello che egli giustamente definisce Homo
destruens con queste riflessioni vuole tendere un’ancora di salvezza. Gettare
un salvagente o forse anche indicare una rotta per navigare attraverso procelle
veramente pericolose. Pericolose perché procurano naufragi molti dei quali
constatiamo ogni giorno nel nostro vivere quotidiano. Perché allontanano
approdi necessari nella nostra vita di erranti. Ed elabora un testo che
colpisce per la sua attualità, per la sua lucidità stilistica, per il suo acume
inevitabilmente visionario. Il vicolo cieco della modernità in cui il pensiero
si è cacciato, i buchi neri che ci attraversano, sono già dentro questo saggio,
in cui si narra che di una cosa che “chiamiamo” arte. E quando lui parla di arte noi vogliamo
intendere poesia e di questa poesia egli a lungo ha parlato ma soprattutto,
questa poesia, egli ha fatto con tutte le implicazioni che abbiamo tentato di
accennare sopra. Una poesia della libertà, fatta liberamente, che afferma “La
libertà di fronte all’impossibile”, ovvero la libertà del poeta di aderire al
richiamo creato dal miracolo, di seguire l’invito della nuova realtà appena
scoperta attraverso la smagliatura nella rete. È la libertà della conoscenza.
Montale lo spiega in modo lampante in un’intervista alla “Gazette de Lausanne”
del 1965: “Sono un poeta che ha scritto senza cessare di battere alle porte
dell’impossibile. Nella mia poesia c’è il desiderio d’interrogare la vita. Agli
inizi ero scettico, influenzato da Schopenhauer. Ma nei versi della maturità ho
tentato di sperare, di battere al nuovo, di vedere ciò che poteva esserci
dall’altra parte della parete, convinto che la vita ha un significato che ci
sfugge”. Altro che stasi!».
Montale negli scritti che compongono “Nel nostro tempo” dunque
ha una consapevolezza: “Non auguro nulla e accetto il mio tempo. Ma vorrei solo
non andasse del tutto estinta la rara sottospecie degli uomini che tengono gli
occhi aperti. Nella nuova civiltà visiva sono i più minacciati.”
Gli uomini che devono tenere gli occhi aperti dentro una
società senza più centro, in cui l’uomo è in fuga “dal tempo, dalle
responsabilità e dalla storia”. Anche se a proposito di storia la visione di
Montale è chiaramente antistoricistica; perché la storia non si occupa d’altro
che della “vita morta”. Visione che gli veniva rimproverata da Pasolini considerando,
da marxista, la sua tendenza all’antistoricismo come un errore.
Un libro che sta però tutto dentro la nostra storia, dentro
la storia dei nostri giorni attuali per ricordarci che è possibile vivere
questa storia fino in fondo; questa storia che non è vita morta perché interroga
costantemente “la vita stessa” e in
questa interrogazione sta paradossalmente tutta la sua vitalità.
(1)Riccardo Campa (Presicce,
21 aprile 1934)
è un filosofo e storico della filosofia italiano, la cui indagine teorica si è
incentrata sulla relazione fra la cultura umanistica e la cultura scientifica,
delineando il percorso storico della cultura occidentale, in
particolare nell'ambito europeo-latinoamericano.
(2) (3) Sito web ufficiale
Eugenio Montale
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