Tutti, almeno una volta nella vita,
abbiamo avuto a che fare con I PROMESSI SPOSI, questo librone noioso, scritto
in un italiano talmente astruso da sembrare quasi una lingua straniera. Costretti a studiarlo a scuola, chissà quante
volte lo abbiamo maledetto. Quante volte ci siamo detti “ma Manzoni non aveva
niente di meglio da fare che scrivere un libraccio che piace solo ai bacucchi?”
Me lo chiedevo anch’io, ai tempi del liceo, quando mi lambiccavo il cervello
sulle sue pagine, cercando significati che non volevano lasciarsi trovare, e
con i quali buttar giù i temi. Quanto
lo ho odiato! Poi, chissà perché, quest’anno mi è venuta voglia di riprenderlo,
e così, in un ‘edizione diversa da quella scolastica, mi sono cimentata di
nuovo in questa lettura e, benché non me ne sia perdutamente innamorata, l’ho
rivalutato. Ora che sulla lettura non
pesavano più i temi da svolgere, l’ho riletto con uno spirito più predisposto
verso quella che è una delle due punte di diamante della letteratura italiana,
nonché con una mente più matura, quindi scevra da pregiudizi, e un maggiore
senso critico. Con questi strumenti mi sono di nuovo incamminata per quel
paesino sul lago di Como, di nuovo ho accompagnato Don Abbondio all’incontro
con i bravi, seguito Renzo e Lucia nelle loro peripezie, scavato nell’anima
dell’Innominato e della monaca di Monza, il personaggio che mi è piaciuto di
più, assistito alla peste di Milano, appreso “il sugo di tutta la storia” e
perfino riso per l’ironia dell’autore nel narrare fatti anche parecchio
tragici. Ebbene ora di questo libro,
benché non lo ami particolarmente, non posso fare a meno di dire quel che Dostoevskij
disse di Anna Karenina: I PROMESSI SPOSI è un’opera assolutamente perfetta. Tanto nella trama quanto nella struttura. Manzoni ci ha regalato uno specchio perfetto
di quella che è la società italiana ancora oggi, a distanza di più di duecento
anni. I Don Rodrigo che oggi sono i boss
mafiosi, i Renzo e Lucia che oggi sono le persone vessate dalle mille
difficoltà della vita, con uno Stato corrotto e dormiente. Ce lo dimostra
chiaramente nell’amaro racconto di quando, all’arrivo della peste, i potenti di
Milano tutto fanno fuorché prendere le giuste precauzioni e “impiegano i danari
del pubblico nello sproposito”. In mezzo
a tutto questo, però, l’autore non manca di inserire personaggi e situazioni
positive, come il cardinal Federico Borromeo, sempre pronto ad aiutare tutti,
l’Innominato che, dopo una vita dissoluta, si converte e diventa un santo in
terra. Come a dire che non è mai troppo tardi per redimersi, per quanto male si
sia fatto. Che nello stesso male può nascondersi il bene. Una scena che mi ha
colpito particolarmente è il pezzo della madre di Cecilia, la bambina morta di
peste che si avvia alla tomba vestita a festa. La compostezza e il dolore
dignitoso in mezzo a tanto squallore. Nocciolo di tutto, la fede nella
Provvidenza, che l’autore non si stanca mai di ribadire. Come non si stanca mai di ribadire di
sopportare con pazienza gli sgambetti della vita, che prima o poi tutto si
aggiusta. Un bel messaggio in un mondo
come quello attuale. Cosi connesso eppure cosi solo. Cosi progredito
tecnologicamente eppure mentalmente così indietro. Dove la speranza muore prima
di nascere, pazienza e perseveranza non si sa più cosa siano e i lieti fini
sono rari. Rileggere questo libro mi ha
fatto capire molto del paese in cui vivo, dell’animo umano e dell’uomo in
generale, vero protagonista del romanzo.
Un’opera che vale la pena odiare da ragazzi e riscoprire da adulti, che
vale la fatica durata a comprenderlo, che anche se non lo ami non puoi non
apprezzare. Insomma un rapporto complicato
che non si può fare a meno di vivere.
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